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Lo spettatore involontario

I documentari pubblicitari sono talvolta una trappola di cattivo gusto per il pubblico che frequenta le sale cinematografiche. Nino Pagot, di cui pubblichiamo un’intervista, ritiene che i cartoni animati, offrendo libertà alla fantasia del regista, possano essere i meno estranei al divertimento dello spettatore e i più idonei a reclamizzare un prodotto

 

Ogni mattina Nino Pagot entra in laboratorio con una segreta speranza: la speranza, vana ma fantastica e gentile, che l’omino a colori lasciato la sera prima su un foglio di rodovetro abbia «fatto qualcosa da solo». Invece, ogni mattina, l’omino, o il personaggio del cartone animato in lavorazione, è fermo al foglio dove Pagot e i suoi collaboratori l’hanno portato il giorno prima. Non c’è che da riprendere penna e pennelli e rimettersi a condurlo avanti, disegno per disegno, ventiquattresimo di secondo per ventiquattresimo di secondo. Giorni fa il contabile di Pagot inventariò il materiale in giacenza dopo quattro anni di cartoni animati e scoprì che ci sono in magazzino oltre 100 quintali di disegni. 100 quintali di disegni eseguiti uno per uno da poche mani pazienti, meno di cento mani in tutto, comprese le mani più umili; mani da inventori di «trompe-l’œil» settecenteschi, mani da fabbricanti di «carillon».

«Come si fanno i cartoni animati» mi dice Nino Pagot, che non si accorge di essere un cultore del paradosso, «è l’unica cosa che sanno tutti». Ed è vero, perché non c’è probabilmente nessuno nel 1954, dai 6 anni in su, che consideri il cartone animato un miracolo e che non sappia riferirne semplicemente la tecnica: si fanno tanti disegni e poi si proiettano uno dopo l’altro sullo schermo… «Come si fanno, d’accordo. Ma perché si fanno? Questo» dice Pagot «è quello che molti si domandano, e che vale la pena di domandarsi».

Questo perché, Pagot cerca di spiegarlo: «Il disegno è sintesi, interpretazione. Ha sempre avuto la maggiore immediatezza di comunicativa, nei secoli, anche nelle astrazioni più ardite. Ma tempo e spazio erano fermati, immobili nell’immobilità del disegno. Oggi invece l’oggetto dell’invenzione, per noi del cartone animato, non è una figura grafica, magari da animare, bensì un movimento; movimento che, per essere definito, ovvero espresso, ovvero rappresentato, si serve del disegno, come si serve del suono, come si serve del colore. In assoluta libertà, col solo limite della fantasia…».

Ma non è questa la spiegazione del perché. La spiegazione è invece chiarissima, mentre Pagot parla, nel suo sguardo. È come se Romeo volesse spiegare perché ama Giulietta. Pagot ama il suo lavoro, ci crede. E se questa è una banalità, magari fosse più banale la gente che comincia a lavorare oggi! Pagot cominciò a lavorare con Zavattini: è uno della «generazione adorabile», quella che sembra avere bruciato molte possibilità di poesia e di entusiasmo per le generazioni successive. Tutti un nome e una strada se li sono fatti, avevano stima l’uno dell’altro e lo dicevano… Ma questo è un altro discorso.

Dice Pagot: «Ho pensato, adesso, un film così e così». E si mette subito, al giornalista che ha appena conosciuto, a raccontare l’idea. La ruota, la storia della ruota. Le vibrazioni del passeggero sul veicolo, attraverso i secoli, sono tradotte in termini grafici da un sismografo e disegnano sullo schermo i diversi stili architettonici. «Eh?» dice «eh?». E subito dopo, una storia di case: case per ogni tipo di abitante, edilizia psicologica, case animate. E subito dopo, il film – astratto, sorprendente – fatto per spiegare il modo di inflettersi del nuovo pneumatico cinturato: un artista che parla agli ingegneri, è un bel record. E poi la vicenda dell’automobilina timida che appena uscita dalla fabbrica incontra il Cattivo Distributore che la porta a bere nella taverna delle macchine perdute… «Ah, come mi sto divertendo con questo, come mi sto divertendo!» dice.

È naturale che poi si diverta il pubblico; quel terribile pubblico che – spesso con sacrosanta ragione – strepita e pesta i piedi aggredito com’è, tra uno spettacolo e l’altro al cinema, da una pubblicità che a volte sembra ideata e pagata dal concorrente diretto del prodotto propagandato. Chi scrive ricorda di aver sentito levarsi da una platea buia, afflitta e oppressa da una voce che ordinava «bevete, eccetera», un grido entusiasmante, il grido del liberale ignoto contro la tirannide: «Non lo berrò mai!». Eppure, chi scrive ha sentito anche applaudire al cinema dei cartoni animati pubblicitari. Il che spiega meglio di qualunque discorso teorico perché i cartoni animati – impossibilitati nelle attuali condizioni del mercato a fare programma da soli, purtroppo – siano i più richiesti per la pubblicità; e perché questo si verifichi non solo in Italia, ma anche in Francia, per esempio, o in Inghilterra o in America, paese dove addirittura la pubblicità diretta è fatta esclusivamente con cartoni animati.

Pagot, oggi, riceve offerte di trasferirsi da Milano a Roma, di ingrandire la sua azienda che è ancora giustamente segnata nei registri dell’artigianato. «Ma non potrei più» dice lui «seguire di persona io tutto il lavoro. E allora perché dovrei farlo? Per arricchire?».

«Ecco» continua seguendo il filo del suo pensiero «quando si ha l’idea per un cartone nuovo, si prova uno slancio, una esaltazione, come quando» – e sorride – «si concepiscono le cose grandi. Poi… poi ci si siede. E si cominciano i disegni uno dopo l’altro, ventiquattro al minuto secondo, millequattrocentoquaranta al minuto primo. Ad ogni nuovo disegno, il lavoro rischia di non essere più quello concepito nello slancio iniziale, rischia di risentire della pazienza, della fatica. Bisogna tener presente che c’è un signore seduto in una sala buia, che non può andarsene perché ha pagato il biglietto, che non vuol vedere e non vuol sentire; e invece noi dobbiamo fargli vedere e fargli sentire quello che vogliamo noi, non solo, ma riuscirgli anche simpatici, per trasformarlo in acquirente del prodotto X. Bisogna che tutto sembri fatto con niente, che non si senta la fatica, perché altrimenti la partita è perduta».