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Nel ’52 eravamo i secondi del mondo

Nel 1945 l’industria cinematografica italiana non esisteva. Gli «studi» di Cinecittà erano stati adibiti a campo profughi. Nei teatri, divisi da barriere di compensato e da tende, avevano trovato rifugio centinaia di famiglie. Mancavano le attrezzature, portate in Germania dai tedeschi, o disperse in qualche capannone del Nord. I fascisti avevano tentato, con risultati trascurabili, di dar vita ad una produzione nei modesti e tranquilli stabilimenti veneziani. Ma è con Roma città aperta che nasce per caso, per necessità, il neorealismo; e comincia la storia di una grande cinematografia.

Non ci sono ambienti adatti alle ricostruzioni, l’energia elettrica scarseggia, bisogna contenere i costi in cifre molto basse, perché limitate e incerte sono le possibilità del mercato. Roberto Rossellini prima, poi De Sica, portano la macchina da presa nelle strade, tra le macerie, vogliono documentare la tragica cronaca del tempo. Dice Zavattini: «Tutto ciò che è verità umana è nostro».

Così le forti sequenze di Roma città aperta, di Paisà, di Sciuscià, di Vivere in pace si impongono all’attenzione della critica e degli spettatori di tutto il mondo. Piacciono le nostre storie sincere, il linguaggio che ignora le ricerche calligrafiche, la spontaneità degli interpreti.

Anna Magnani e Fabrizi diventano famosi, e aprono la porta della celebrità alle Mangano, alle Lollobrigida, alle Pampanini. Inventiamo un genere. Entusiasmiamo, che so, tanto le facili platee del Sudamerica come Charlie Chaplin, Clair, Dreyer. I nazionalisti si indignano perché i registi ci presentano all’estero coi nostri stracci e con le nostre miserie; ma si conoscono ben pochi esempi di arte ottimista. Meglio i panni sporchi stesi al sole, che gli insulsi telefoni bianchi delle antiche commediole.

Nel 1952 il cinema italiano è, come industria, al secondo posto della graduatoria mondiale, dopo gli Stati Uniti. Molti attori, molti registi di Hollywood si trasferiscono a Roma. Dicono che la nostra aria eccita la fantasia e utilizzano i fondi ricavati col noleggio che non possono essere trasferiti. Si realizzano «colossi» come il Quo Vadis. Macchinari e maestranze soddisfano qualsiasi esigenza.

Per diminuire l’impiego di capitale e per aumentare i vantaggi dello «sfruttamento» si ricorre spesso al sistema della coproduzione. I francesi, in particolare, sono favorevoli a queste combinazioni: i film che hanno doppia nazionalità (tecnici e artisti di due paesi vengono utilizzati proporzionalmente) godono quindi delle previdenze concesse da ambedue le nazioni. Anche da un punto di vista estetico i risultati sono considerevoli (Le belle della notte, Fanfan la Tulipe).

Nel ’52 abbiamo prodotto 132 film, 380 cortometraggi, 330 documentari. Ci seguono: la Francia con 100 film, l’Inghilterra e la Germania con 60. Possiamo usare una pellicola a colori italiana, la Ferraniacolor, e sembra che ci stiamo impegnando, niente meno con Ulisse, anche nel sistema tridimensionale.

Né per il momento si avvertono segni di crisi: gli incassi hanno subito – rispetto al ’51 – un incremento del 12%; le nostre bobine circolano in settanta paesi; 18 mila persone vivono dedicandosi ad attività cinematografiche. Lo spettacolo filmico è sempre il preferito dal pubblico (i diritti erariali incassati lo scorso anno ammontano a circa 16 miliardi e 650 milioni di lire) e non è il caso di giudicare pericolosa la eventuale concorrenza della televisione. Secondo l’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche ed Affini) «difficilmente si potrà ripresentare per la nostra industria una congiuntura più favorevole».

[…] Bisogna pure tenere presente che ancora oggi 2400 comuni mancano di sale di proiezione e che il passo ridotto è in continuo sviluppo. Ad ogni modo, la forza del nostro cinema è nell’esportazione. Un film del costo medio di 90 milioni […] può ricavare dal mercato italiano 40 milioni, che arrivano a 73 con la restituzione parziale dei diritti dell’erario, concessa a titolo protezionistico in base alla speciale legge, comunemente detta dei «premi».

[…] Si sa che, per avere diritto ai premi, i film debbono passare al vaglio di un apposito Comitato tecnico il quale giudica, in base a una valutazione estetica, quelli meritevoli di un rimborso […].

La Banca Nazionale del Lavoro, che ha istituito una speciale sezione di credito, finanzia il 70% della produzione nazionale. […] È chiaro che, senza un largo credito, l’industria cinematografica, per il suo particolare andamento economico e finanziario, non potrebbe vivere. Solo al secondo anno di programmazione il produttore può sperare nel rientro del 50% delle spese. […]

Nonostante il costo relativamente basso degli ingressi (Milano e Roma sono le città che hanno i prezzi più alti, Charles Chaplin con Luci della Ribalta si è dimostrato il produttore più esoso, imponendo al noleggio e ai locali degli altissimi minimi garantiti) gli italiani non sono tra i più assidui frequentatori del cinematografo.

In un anno gli inglesi vanno al cinema 44 volte, gli americani 28, gli italiani 21, i tedeschi 18, i francesi 13. Il nostro pubblico, che una volta non voleva assolutamente saperne di film nazionali, oggi li preferisce spesso anche agli americani, che detenevano il primato degli incassi, e che dominavano e dominano il nostro mercato.

[…] Le pellicole sovietiche non soddisfano gli spettatori, neppure quelli più «progressivi»: basta informarsi dell’esito delle programmazioni nella simpatizzante Emilia.

Don Camillo (regia di Duvivier, produzione Rizzoli, soggetto trattato dai racconti di Guareschi) ha battuto Via col vento superando in Italia il miliardo di incasso.

[…] Il primato dei minori incassi spetta a due opere di Roberto Rossellini; Francesco, giullare di Dio (20 milioni lordi) e Amore che, nonostante la presenza della Magnani, non è andato oltre i 30 milioni.

Queste cifre sono altamente indicative non solo da un punto di vista commerciale: danno modo di tracciare una specie di diagramma del gusto. Gli attori prediletti dalla massa sono l’anziano Amedeo Nazzari e Totò; Silvana Mangano è l’attrice che «chiama» di più; la coppia prediletta dal pubblico – parliamo sempre in base ai borderò – è quella formata da Nazzari e dalla prosperosa greca Yvonne Sanson.

[…] I romanzi popolari, le vicende famose, hanno un sicuro successo spettacolare e finanziario, purché siano ringiovaniti con l’introduzione di qualche particolare che in certo senso le attualizzi: Le due orfanelle e I miserabili, tanto per citare, hanno avuto innumerevoli edizioni […].

I film comici che hanno maggiormente rallegrato il pubblico e i produttori sono: Totò cerca casa e Guardie e ladri, che avevano per interpreti, oltre al funambolesco principe napoletano, Aldo Fabrizi.

Da questa inchiesta è facile dedurre come si possano prevedere per il nostro cinema favorevoli prospettive, ed è altrettanto facile diagnosticare i pericoli che lo minacciano. È necessario non fermarsi alla formula neorealista, che già Castellani ha superata col suo umore, immettendo nel «genere» l’elemento comico, dando alle vicende nuovi significati: nei drammi che Castellani racconta si fa strada la speranza. Bisogna che il divismo, con le assurde pretese che scatena, non incida eccessivamente sul costo di produzione, ed è pure importante che le nostre attrici non siano soltanto le «rivelazioni», le «scoperte» dei concorsi di bellezza, ma si formino attraverso le scuole di recitazione (la Garbo e la Bergman uscivano dalle aule del «Dramaten»; la Hepburn, la Morgan e la Davis si sono fatte notare sui palcoscenici).

Abbiamo 10 stabilimenti (7 a Roma, uno a Tirrenia, uno a Torino, uno a Milano) con 43 teatri di posa, dei quadri tecnici di prim’ordine, alcuni registi: Rossellini, De Sica, Visconti, Blasetti, che hanno un nome internazionale, dei giovani che si vanno sempre più affermando: De Santis, Antonioni, Castellani, Lattuada, Germi, Zampa, Emmer. Evitando il dilettantismo, tenendo presente che solo le opere di alto livello artistico conquistano i mercati e rendono popolare e impongono un’intera produzione, cercando nelle nostre avventure quotidiane le trame da raccontare e mostrandoci, senza falso orgoglio, per quello che siamo, potremo mantenere quelle posizioni che abbiamo conquistate soltanto per merito dell’intelligenza e del coraggio.