Anch’io ho visitato la fabbrica. Appena fuori dalla grande città, ci sono ancora prati verdi, luminosi, e, al di là di un lungo muro, la fabbrica. Ci sono entrato una mattina. Avevo un accompagnatore che coscienziosamente mi mostrava ed illustrava tutto quanto c’era da vedere. E si stupiva e quasi mi rimproverava per certe mie fermate, incomprensibili per lui, davanti a piccole macchine, forse poco importanti o almeno non quanto le imponenti macchine e gli impianti che desiderava mostrarmi, ma che suscitavano il mio interesse
C’era una strana atmosfera. Erano circa le 11 e gli operai avevano una pausa per mangiare. Alcuni reparti davano un senso di vuoto: mancava l’uomo, c’erano solo filari di lunghe macchine, grandi, piccole, interminabili. Li chiamano «cicli di lavorazione». Macchine tutte colorate: tubi gialli, rossi, verdi; strane pentole, fischi, odori, fumo; qua e là nastri che si avvolgevano o si svolgevano, a seconda del movimento che la macchina imponeva loro.
Non riuscivo a fare domande, ma l’omino che mi accompagnava, coscienzioso, mi enunciava denominazioni ben precise: trafile, rettifiche, cavi, nastri, alesatrici, avvolgitrici, man mano che procedevamo.
Se mi fosse stato possibile, avrei tradotto in immagini immediate tutto quello che vedevo, sentivo, ascoltavo, assaporavo persino, di questo mondo che andavo scoprendo: la fabbrica.
Uscii di nuovo al sole. Rividi il lungo muro, i prati verdi, luminosi, la grande città vicina, con una sensazione piacevole come quelle dell’infanzia.