Come il sorgere di una nuova industria o la preparazione di una campagna pubblicitaria impongono la necessità di inchieste di mercato, così la cultura ha bisogno di elaboratori ma anche di imprenditori che vaglino la qualità delle opere e la capacità di assorbimento del pubblico, con il trasporto dato dalla vocazione.
Volendo inserire una storia del teatro nella storia generale dei fatti umani, occorrerà dire che quando dal Settecento si passò nell’epoca romantica a strutture più moderne, anche il teatro cominciò a lasciare le sue antiche vesti inventive e le sue fonti di vita mecenatesche per avviarsi sempre di più verso organizzazioni industriali in lenta ma certa evoluzione. […]
Il dopoguerra è caratteristico in Italia per il sorgere di teatri stabili: non si tratta però di iniziative con impegni esclusivamente artistici, ma di propositi sviluppati con concezioni complete, artistiche ed organizzative. Il progetto Pirandello del ’29, quello cioè di un Teatro Nazionale Italiano organizzato su una serie di teatri stabili aventi sede nei grandi capoluoghi di regione, prende forma per iniziative spontanee e diverse, anche se non coordinate. Con la legge del 20 febbraio ’48, la cosiddetta legge Andreotti, lo Stato italiano impegna ufficialmente il suo interesse per il teatro di prosa. Oltre a versare ai nove enti lirici (Milano, Roma, Bologna, Genova, Venezia, Firenze, Napoli, Palermo, Trieste), per un noto decreto legge del ’37, il 12% di quanto annualmente tutto lo spettacolo italiano fornisce al Demanio come diritto erariale, lo Stato destina un ulteriore 6% da dividersi in tre parti, un terzo alla lirica minore (cioè le recite liriche isolate), un terzo alla concertistica, un terzo al teatro di prosa. Pertanto il teatro di prosa in Italia (e qui mi permetto di richiamare l’attenzione sulle cifre degli altri Stati) viene a fruire annualmente di un contributo governativo di circa 360-380 milioni, pari circa a meno di un sesto di quanto percepisce la lirica maggiore, cioè il gruppo dei nove enti lirici italiani; evidente situazione di sperequazione, giacché non mi pare che il posto che il teatro di prosa occupa nella vita sociale e culturale italiana sia proporzionalmente così inferiore a quello del melodramma.
Sarebbe assurdo che, parlando dei teatri stabili che hanno tentato di nascere o hanno preso vita in Italia in questo dopoguerra e delle loro aspirazioni in un allineamento internazionale dei teatri d’arte con simili ambizioni estetiche e con uguali strutture organizzative, io non parlassi del Piccolo Teatro di Milano che avrebbe potuto essere benissimo un teatro sperimentale documentando un’epoca, una breve epoca, come si era fatto nel passato e come invece noi non abbiamo voluto fare. Il nostro proposito era invece di dotare Milano di una iniziativa stabile in cui alle qualità dell’«animateur» si aggiungesse la concretezza di una savia amministrazione. Per ottenere questo risultato occorreva sia la cura di un livello artistico, sia il reparto delle strutture economiche sociali culturali cittadine per «raciner» la nuova iniziativa. È stata, questa nostra, furberia o moderna necessità? Posso dire che è stata una esigenza profonda e diretta. Non si serve un pubblico senza conoscerne la natura e i bisogni coscienti e un teatro, specie se municipale come il nostro, è un pubblico servizio (tale noi lo concepiamo) con un’aggravante particolarmente delicata: si serve un bisogno che fa capo alla testa e non al corpo del pubblico.
Il pubblico spontaneamente va poco a teatro, così spontaneamente va poco in libreria: era, è necessario concepire il botteghino come un punto di partenza, non d’arrivo per un’azione in profondità: questo spiegherà la nostra politica di abbonamenti (l’anno scorso 4960, quest’anno già oltre i 6500 e in via di continuato aumento), questo spiegherà i nostri contatti più stretti con l’ambiente della scuola, universitaria, media ed elementare, questo spiegherà le nostre relazioni con i centri di aziende e il nostro calmiere dei prezzi.
È finito il tempo in cui la cultura si porgeva spontaneamente a vuoto: come il sorgere di una nuova industria o la preparazione di una campagna pubblicitaria impongono la necessità di inchieste di mercato, così la cultura ha bisogno di lavoratori ma anche di imprenditori che si rendano conto della qualità dei prodotti, delle capacità di assorbimento da parte del pubblico, ma che siano anche illuminati da una missione interiore perché, soprattutto nel campo culturale, tutto non si arrenda ad un semplice ingranaggio di convenienze. In questa nuova concezione della cultura e del teatro in particolare, che ha trovato prime realizzazioni nel nostro campo specifico nel Piccolo Teatro di Milano e che informa di sé tutto un certo movimento della nuova scena italiana, penso che l’intervento delle autorità non possa essere pensato in funzione paternalistica (aperto cioè solo ad elargizioni e censure), ma in funzioni moderatrici, tali da correggere le atrofie del mercato spontaneo, animate da un ideale di libertà.
In un teatro che ignora la partita doppia, in un teatro affidato alle gestioni semestrali delle compagnie, in un teatro in cui, nel migliore dei casi, la validità estetica dello spettacolo è fine a se stessa, in un teatro che o crea cose inutili o distrugge quanto di buono ha creato per assenza di strutture che ne continuino la vita, in un teatro come l’italiano senza amministrazioni durature, senza archivi, nomade o empirico, in balia o dell’avventura artistica sia pur nobile o del commercio al minuto, in una scena come la nostra piena più di capricci che di risultati, di ambizioni più che di realizzazioni, noi abbiamo cercato di introdurre cautamente prima, autorevolmente poi, una nuova mentalità: non solo l’aspirazione alla stabilità del lavoro, non solo la ricerca della continuità di una produzione qualitativamente alta, non solo la difesa di un insopprimibile formalismo, ma il senso vivo di una «politica teatrale» della nostra scena, ma il significato del teatro inteso come «pubblico servizio», ma l’inserimento del teatro tra i fatti di prestigio civici e nazionali, ma l’accostamento del miglior teatro al mondo e alla vita dell’alta cultura, ma l’ansia autentica di un vero lavoro per un allargamento del pubblico, ma la volontà di abbinare all’evoluzione artistica una sacrosanta trasformazione strutturale. […]
Il Piccolo Teatro svolge la propria vita con circa 20 attori stabili, 5 tecnici stabili, 20 comparse a cachet, circa 20 persone a spettacolo per la sala e i servizi, circa 10 tecnici a spettacolo, con una caposarta e 10 lavoranti nella propria sartoria, ecc. Possiamo dire che il teatro dà uno stipendio o comunque un lavoro a più di 80 persone ogni giorno.
Ho parlato per brevi tratti dei rapporti fra teatro e Stato negli altri Paesi, nel nostro, di come noi del Piccolo Teatro di Milano concepiamo e realizziamo il nostro lavoro: ora dovrei dire che quella disparità di un tempo fra la scena italiana e le migliori scene straniere è scomparsa. Ero a Parigi qualche mese fa quando illustri amici italiani ebbero, da parte del rettore della Cité Universitaire, un particolare fervido elogio per il Piccolo Teatro definito «uno dei pilastri del Teatro Europeo» e ricordo la loro gioia commossa. Questo segno, come tanti altri, vuol dire che a Bruxelles, a Londra, a Parigi, a Zurigo abbiamo seminato non solo per i critici o per certo pubblico ma anche per il nostro Paese: oggi che ci accingiamo a ritornare all’estero in Norvegia, in Danimarca, in Germania, in Svezia, oggi che ci apprestiamo a preordinare la nostra quarta visita a Parigi, oggi mentre trattiamo il lusinghiero invito di New York e del Canada sulla scia dell’amico Jean-Louis Barrault, abbiamo la soddisfazione di sapere che tutto questo fa parte di un programma organico che, come ho detto e ripeto, abbiamo messo e mettiamo al servizio della cultura, al servizio della città.