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L’olimpiade di Zeno Colò

Il giorno 27 febbraio un quadrimotore scaricò alla Malpensa gli atleti italiani che ritornavano da Oslo. Giornalisti, fotografi, autorità sportive e un considerevole numero di appassionati, quanti mai si erano incontrati in altre occasioni, erano all’aeroporto in quel soleggiato pomeriggio invernale. Quid novi? Per la prima volta nella storia dello sci italiano un atleta «azzurro» aveva riportato in Italia una medaglia d’oro. Zeno Colò il suo nome.

Un mese avanti, prima cioè di lasciare, dallo stesso aeroporto, l’Italia, il campione abetonese dichiarò al radiocronista che gli chiese qualche dichiarazione: «Mi sento bene, farò di tutto per conquistare una medaglia d’oro». Una dichiarazione schematica, scarna, come in genere ogni manifestazione dell’atleta toscano, che non soddisfò chi si aspettava una lunga chiacchierata. Ma ben importante invece. Il campione italiano sentiva, in quel momento, di poter dire la sua. La Sesta olimpiade invernale può dunque essere, per noi italiani, identificata come «l’olimpiade di Zeno Colò». Anche se altri nostri atleti hanno in essa conseguito considerevoli risultati.

Un’autorevole personalità sportiva disse che i risultati di un’olimpiade possono essere confrontati «soltanto» con quelli di un’altra olimpiade. E in effetti l’affermazione è delle più esatte. Abbiamo visto a Oslo quale tensione nervosa governava la vita quotidiana di ognuno, accompagnatori compresi. L’olimpiade arriva (salvo guerre) ogni quattro anni, e se un’atleta ne manca una, non ha certo molte speranze di rifarsi nelle successive.

[…] Facciamo dunque brevemente il punto della situazione. Per la prima volta nella storia dello sci le Olimpiadi sono state disputate nel paese che «vanta» l’invenzione dello sci. E la capitale, Oslo, ha offerto agli atleti di tutto il mondo gli stadi, le piste, il ghiaccio, i trampolini per la quasi totalità delle competizioni. Un piccolo centro al Nord, Norefjell il suo nome, ha radunato invece fra i suoi abeti, lungo le sue veloci discese, i campioni della «libera» e dello «slalom gigante». Qui appunto è nato il capolavoro di Zeno Colò, come pure l’affermazione di Giuliana Minuzzo.

Le Olimpiadi norvegesi hanno insegnato che in quattro anni la situazione può ampiamente mutare. Travolti i francesi in ogni specialità, sono ricomparsi, sempre più temibili, gli austriaci; i norvegesi hanno ritrovato in Stein Eriksen, perfetto atleta, il loro nuovo «eroe nazionale» (fu definito il primo atleta di Norvegia), l’Italia ha vinto la prima medaglia d’oro. In campo femminile l’America ha detto una parola in più con la doppietta della fuoriclasse Andrea Mead Lawrence, mentre l’Austria, vincendo una gara con la Jochum-Beiser, ha continuato la sua ottima tradizione. Collettivamente sono balzate su un piano elevato le forti discesiste di Germania che, presenti lassù in numero di otto, hanno indicato di possedere una media atletica di prima fattura.

Gli svizzeri, che si sono presentati con un materiale umano completamente rinnovato, hanno esibito individualità notevoli. Particolarmente in Fredy Rubi e nella tarchiata Berthod.

L’Italia, dicevamo, ha vinto comunque la prima medaglia d’oro. Zeno Colò già conosceva la pista di Norefjell dallo scorso inverno.

Ma in quali mutate condizioni si è ripresentata essa quest’anno! Sterpi, sassi, lastre di ghiaccio, gobbe, un susseguirsi di difficoltà che non concedevano all’atleta un attimo di «respiro». Il nostro campione comunque fin dal suo arrivo capì che quella pista poteva essere la «sua» pista, e cercò di farla del tutto sua studiandola con uno scrupolo e una continuità che a taluno parve fin eccessiva. I suoi avversari più pericolosi erano Eriksen, che sarebbe partito con il morale alle stelle per la già acquisita vittoria nel «gigante», e i quattro austriaci, che avrebbero affrontato le picchiate di Norefjell con il sistema dell’«entweder… oder» (o la va o la spacca!) pur di ottenere una medaglia d’oro. Non dimentichiamo che gli austriaci, pur disponendo del più formidabile complesso atletico, non avevano, prima di Oslo dal dopoguerra, vinto ancora una classica internazionale. Ma l’atleta italiano, perfetto padrone della sua coscienza, ha vinto in maniera nettissima (l’2” di distacco dal secondo) e indiscutibile: Zeno Colò ha dimostrato con questo suo ennesimo successo di essere il campione che, con gli sci ai piedi, è riuscito a fare del coraggio una scienza.

[…] Che altro? Pattinaggio, bob, ancora sci? Nessun’altra possibilità, all’infuori della staffetta, era concessa ai nostri atleti. Più che modesta l’esibizione dei nostri pattinatori sull’anello del Bislet e non oltre la mediocrità quella dei bobbisti, peraltro presentatisi in Norvegia con l’attenuante («importantissima»!) della mancanza di allenamento. La staffetta, fortuna con noi una buona volta, avrebbe potuto ridarci quella supremazia centro-europea che era nostro vanto fino al 1941. Ma una cattiva sciolinatura (in questo caso autenticissima) del generoso De Florian compromise irrimediabilmente ogni nostra possibilità.

Così sulla pista di Holmenkollen i nostri tecnici imprecavano alla mala sorte, mentre le Olimpiadi stavano per concludersi. Pur essendo in realtà essi molto felici per la grande vittoria di Colò e per le buone affermazioni degli altri atleti.  L’Italia aveva finalmente conosciuto la strada della vittoria.