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Alcuni aspetti dell’economia italiana dal 1870 al 1950

Abbiamo il piacere di portare a conoscenza dei nostri lettori un articolo che il dott. Alberto Pirelli ha dettato per la rivista “European Exporter”

 

1870: l’anno della consacrazione dell’unità italiana con la proclamazione di Roma a Capitale. Nei quarant’anni successivi un graduale assestamento e sviluppo in un’atmosfera di quasi ininterrotta pace internazionale, ma poi altri quarant’anni di guerre, di crisi economiche e sociali, di esperimenti politici con un tragico saldo passivo. Pure errori e sciagure non hanno impedito nuovi progressi nel campo economico anche in questo secondo periodo, se esso venga preso nel suo insieme: cosicché, nel diagramma che segna lo sviluppo dell’economia italiana nell’ottantennio, la linea mediana segue una forte inclinazione ascensionale e segna, dopo temporanee pressioni e precipizi, riprese più che compensatrici.

Il punto di partenza era stato basso, né poteva essere diversamente dopo secoli di frazionamento del Paese sotto dominazioni straniere o sovrani oppressori, le une e gi altri per la maggior parte scarsamente solleciti di elevare il tono di vita materiale e spirituale della popolazione, e dopo un assestamento nazionale raggiunto in undici anni (1859-1870): una agricoltura primordiale, un’industria quasi inesistente ed ostacolata dalla scarsità delle risorse nazionali; poche scuole, poche ferrovie, pochi ospedali, pochi acquedotti; un tenore di vita in generale molto basso: una scarsa produttività ed una deficienza di risparmio e di capitale per lo sviluppo economico; un analfabetismo che in alcune regioni raggiungeva l’85 per cento.

[…]

Per meglio fissare le caratteristiche dell’economia nazionale italiana giovano alcuni dati sulla popolazione: 26 milioni circa di abitanti nel 1870 e 46 milioni circa nel 1950 al netto di circa cinque milioni di emigrati permanenti. Oggi, oltre 300 abitanti per chilometro quadrato, di terreno seminativo, densità quattro volte quella della Francia e superiore a quella della Germania e del Regno Unito, cosicché, la quota per abitante di superficie territoriale è di ettari 0,73, una delle più basse di Europa e circa la metà della media del Continente pur senza la Russia.

Si comprende così facilmente come l’agricoltura italiana, nonostante l’intensificazione della produzione agricola, non sia stata in grado di assorbire parte alcuna dell’aumento di popolazione negli ultimi ottant’anni. Tale aumento ha trovato uno sbocco, oltrechè nell’emigrazione, nei servizi pubblici e privati, nel commercio, nelle banche e soprattutto nell’industria, pur lasciando un grosso saldo di disoccupati. Lo sviluppo industriale le ha permesso di far salire nell’ottantennio il numero degli addetti a questo settore da circa un milione e mezzo a quasi sette milioni, e all’Italia di diventare da paese prevalentemente agricolo un paese a larga base industriale.

 

Cause di difficoltà
Non è stata certo facile questa evoluzione. Alla ben nota deficienza di materie prime e di fonti di energia nazionali (temperata dalle risorse idroelettriche e, recentemente, dal ritrovamento di gas metano nella Valle Padana) ed alla, sia pur relativa, deficienza di capitali, si è aggiunta la difficoltà che il processo di industrializzazione si è svolto mentre altre Nazioni già avevano preceduto l’Italia; già avevano superato le « malattie dell’infanzia »; già – almeno talune di esse –  si erano formate un impero coloniale; già dominavano i mercati mondiali con una organizzazione commerciale, bancaria, assicurativa e di marina mercantile. Giovava anche alle industrie già sviluppate in altri paesi l’esistenza locale di industrie complementari, la utilizzazione dei sotto-prodotti, la disponibilità di grandi laboratori di ricerche, la formazione di maestranze molto specializzate. Nonostante questi svantaggi iniziali, si calcola che il volume della produzione industriale italiana si sia decuplicato negli ottant’anni, il che rappresenta un poco più della media mondiale. Si sono andati sviluppando alcuni grossi complessi industriali, ma prevalgono le medie e piccole industrie.

[…]

L’ottantennio è stato caratterizzato anche in Italia da un aumento di salari sia nell’industria che nell’agricoltura con un benefico miglioramento del tenore di vita della popolazione. Il graduale progresso tecnologico e nella organizzazione del lavoro ha notevolmente attenuato l’effetto dell’incremento del costo del lavoro sui costi globali, ma si può affermare con sicurezza che la quota «lavoro» è aumentata, sull’insieme dei costi di produzione, più che in altri Paesi. L’Italia non è più una Nazione a bassi costi del lavoro, e sebbene sussistano ancora notevoli diversità tra Regione e Regione e tra categoria e categoria, si constata oggi che, se alle rinumerazioni dirette si aggiungono gli oneri complementari di carattere legale o contrattuale, il costo del lavoro per es. nelle maggiori industrie meccaniche, della gomma, ecc., del Nord Italia s’avvicina, ai cambi attuali, a quello di Paesi a maggior sviluppo industriale come la Gran Bretagna ed il Belgio ed in alcuni casi lo supera.

La manodopera, quando le sue capacità e volontà produttive non sono frenate da interventi sindacali, è buona e mostra di sapersi addestrare rapidamente. Queste virtù d’altronde si sono appalesate nel corso dei passati decenni anche attraverso il contributo che questi stessi lavoratori italiani, che sono emigrati partendo da Regioni dove l’industria non era affatto sviluppata, hanno saputo dare alla produzione dei Paesi di immigrazione rivelando notevoli virtù di laboriosità, capacità di lavoro ed anche di rapido progresso generale in condizioni adatte.

Da quanto sopra esposto sia pur succintamente e tralasciando settori pur importanti, quali la politica finanziaria ed i trasporti, risulta quanto intensa sia per l’Italia la necessità di una cooperazione internazionale: afflusso di capitali esteri; facilitazioni per l’esportazione italiana; accoglimento di emigrati. Molto è stato fatto per il primo capitolo, specialmente dagli Stati Uniti con alto senso delle loro nuove responsabilità internazionali. Troppo poco è stato fatto per i due altri punti in un mondo spiegabilmente preoccupato dai problemi della ricostruzione post bellica ma dominato talvolta da egoismi nazionali che si estendono alle più svariate classi di interessi.

 

Volontà di lavoro
Nel chiudere vorrei aggiungere poche osservazioni sull’ultimo periodo di vita del nostro Paese. Sul cinematografo della nostra memoria gli eventi si accumulano e si susseguono con tanta rapidità che è difficile rivivere emozioni pur vicine; ma chi ritorni con la mente alla situazione in cui la seconda guerra mondiale ha lasciato molte zone d’Italia, non può non constatare con soddisfazione il cammino percorso; distrutti o danneggiati numerosi impianti industriali, e abitazioni, e ponti, e stazioni ferroviarie; danneggiati anche uliveti, vigneti ed agrumeti; immobilizzati, sia pure per guasti parziali, nove decimi della possibilità di forniture di energia elettrica, messo fuori servizio il novanta per cento della marina mercantile e la maggior parte del parco ferroviario ed automobilistico; esaurite le riserve d’oro; ridotte le scorte di bestiame, di materie prime, di prodotti finiti; vuota in molti luoghi la stalla del contadino, vuoti l’armadio della massaia, il deposito del negoziante, il magazzino della grande industria. Ridotta la vita civile ad una paurosa miseria: il focolare senza legna, la cucina senza gas, il pane senza sale, il bambino senza latte, il vecchio senza coperte, l’ospedale senza medicine. Tutto questo è stato purtroppo una triste realtà. Dobbiamo alla vitalità, alla volontà di lavoro del popolo italiano, ma anche in larga misura ai tempestivi aiuti di paesi esteri, tra cui il Canadà e la Svizzera, se si è potuti risalire rapidamente da questi abissi.

Sulle rovine di una catastrofe come quella che si è attraversata è stato difficile, non soltanto per l’Italia, ma per tutti i Paesi che ne hanno sofferto, riedificare secondo schemi ideali mentre bisognava puntellare un muro, riparare il tetto, rimettere in sesto i serramenti del vecchio edificio. L’eredità che lascia la guerra impegna molte linee della ricostruzione ed una politica a lunga scadenza è resa impossibile dalla necessità di misure di emergenza. Ma nel complesso è fonte di orgoglio per gli italiani il riconoscimento generale dell’opera ricostruttiva compiuta, del successo ottenuto nella rimessa in marcia dell’attività economica e del conseguito riassestamento dell’attrezzatura sociale e politica del Paese.