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La vita di Nuvolari

Non ho una mia teoria sulla «Padania», ma ne conosco abbastanza i paesi, e gli uomini che vi nascono. Non ho una mia speciale teoria sugli uomini della montagna e sugli uomini della pianura, come personaggi appartenenti a due favole differenti, a due differenti e avverse mitologie. So però che gli uomini portano spesso in sé una patria diversa da quella della loro origine geografica. Senza che lo sappiamo, perfetti uomini di mare salgono, per esempio, ogni mattina in tram con noi a Milano o a Torino. […] Solo pochi fortunati conoscono la precisa patria del loro spirito e del loro destino, e questo spiega perché il mondo sia abitato da una infinita maggioranza di esiliati. Questo spiega, in determinati individui, e in determinate circostanze, il sorgere di quegli straordinari atti rivoluzionari che sono il sogno e la poesia, completamente indipendenti dal nostro vivere organico, e, diciamo così, anagrafico. […]

Il diavolo in corpo
Sembrerà strano che io scriva queste cose mentre il tema che mi sono offerto è quello di narrare la vita di un corridore automobilista. Ma io scrivo questo perché cerco di penetrare dentro alla vita segreta di questo corridore, che mi è apparso come un uomo taciturno e con gli occhi velati di melanconia, e dunque illuminati da una misteriosa vita interiore.

Un suo amico che ci stava accanto mentre gli parlavo, o meglio mentre cercavo di interrogarlo – quello che noi chiediamo agli uomini è sempre molto differente da quello che vorremmo realmente chiedere loro – mi disse: «Lei dovrebbe vederlo in certi momenti. È l’incarnazione del diavolo». Invece io non trovavo nessuna traccia di demonismo nell’uomo che mi stava di fronte. No. Il silenzioso e vorrei dire quasi timido uomo che mi stava vicino non sapeva di zolfo. E devo dire che sono anche convinto che la sua vera vita non è quella che ho trovata riscritta, secondo il formulario della normale informazione della cronaca sportiva, in certi molto difficilmente reperibili volumetti dedicati alla sua biografia, pieni di cifre e di precisi cronometratissimi ricordi di imprese sportive. Così, come non ero d’accordo con la platonica immagine demoniaca che mi veniva suggerita dall’amico del corridore, così mi dovevo scoprire niente affatto d’accordo con l’altra immagine che dello stesso corridore avrebbero voluto comporre innanzi ai miei occhi i compilatori delle piccole biografie popolari, per altro lato del resto preziosissime, che un ottimo compagno di lavoro aveva ritrovato per me nei suoi archivi. […]

Ho cercato di capire il campione in una sua assomiglianza intima nella quale forse egli stesso non avrebbe potuto essermi di guida. Per questo gli chiedo scusa se troverà qui ben poco di quello che gli ho chiesto e ben poco di quello che mi ha risposto, e ben poco anche di ciò che è dominio della cronaca e dei libri d’oro dello sport. Io ho cominciato con il veder, dietro lui, la sua pianura natale. E per questo il mio tentativo di ritratto campeggia su uno sfondo di quella pianura ai cui profili e ai cui segreti non ancora esplorati ho accennato in principio, solo apparentemente divagando.

Questa pianura era un mare, negli antichissimi tempi, e le sue terre ne hanno conservata la lunga distesa, senza più movimento, ma carica, nei suoi fondali segreti, di infinite essenze marine. Io penso che nella notte, sotto alle stelle, o nella bonaccia dei pigri afosi pomeriggi d’agosto, dal sottosuolo della Padania, là dove essa è più lontana dalla visione dei remoti monti cerulei dell’Alpe e da quella dei grigi e verdi monti dell’Appennino, salga non so quale lontano ed epico spirito marino. È forse esso che dà a tanti suoi uomini quella vastità d’anima che portò Virgilio egualmente verso la poesia epica e verso quella georgica e gli fece veder in moto, sotto alle medesime stelle, gli eroi del tempo di Enea e gli uomini intenti alle opere rustiche, guidate dai ritmi segreti, eterni e dolcissimi, delle stagioni.

Misterioso galoppo
[…] Prima d’oggi mi è accaduto spesso di incontrare il piccolo magro uomo di cui sto cercando di disegnare il ritratto segreto e di conoscere la vita segreta sulle rive di quel lago che il padano Virgilio chiamò il «Benaco marino», L’uomo che ho conosciuto negli autodromi smaltati circondati dalle nere praterie di folla, l’uomo che ho conosciuto in mezzo al gorgo delle velocità e ai cicloni dei motori, lo vedo camminare talvolta in silenzio su quelle rive che gli sono diventate amiche con i loro lunghi smemoranti silenzi. Su quelle rive, quando può, egli cerca di riposare e di guarire dal male che ogni tanto, durante la corsa, gli danno i tossici delle essenze che alimentano il motore. Nelle quiete arie del lago egli combatte i veleni delle infinite corse alle quali i suoi occhi ed i suoi nervi hanno dato guida. Passeggia in silenzio, con qualche amico, il piccolo magro uomo dai capelli che cominciano a diventare grigi, sul lungolago fiorito per un piccolo paradiso di villeggiatura. Pensa forse ai motori urlanti e alle piste vertiginose? Non lo so. Probabilmente quello è il suo costante pensiero sottinteso, perché tutta la sua vita si è equilibrata e slanciata sul rotare vertiginoso delle ruote che obbediscono alle esplosioni di un motore e ai polsi che reggono un manubrio o un volante. La maggior parte di quelle che si chiamano interviste è fatta di domande inutili, e per questo non ho mai chiesto nulla a Nuvolari, incontrandolo sul lungolago dove cerca riposo. Mi è accaduto di udire di lontano la sua voce calma e sommessa, e di osservare il suo viso asciutto, di disegno sottile, intento e riflessivo, dove la gioia e la melanconia si stendono e si effondono, come nella pittura degli antichi, per velature sottili.

Il servo nel burrone
E una sua immagine mi è apparsa due volte sotto diverse sembianze. La prima è leonardesca: appartiene alla storia di Leonardo, senza che per questo io abbia dovuto vestire il mio uomo con i coloratissimi panni di un uomo del Cinquecento. Ricordate la leggenda, che forse è verità, del servo fedele, e più che servo, amico di Leonardo e testimone dei suoi lunghi studi sul volo degli uccelli? Leonardo, a imitazione di quelle degli uccelli aveva costruito due grandi ali, adatte forse a sorreggere un uomo nel vuoto, e le teneva riposte in un suo appartato cantiere, dubitoso ancora se provarle o no. In segreto, trascinato dalla fede nel genio del suo padrone, il suo servo decise di provarle, audacissimo se le legò alle spalle, e con quelle si gettò da un monte, rimettendoci, a quanto pare, con grande dolore del padrone che lo ritrovò gemente in fondo ad un burrone, le ossa delle gambe. Fosse nato nel Cinquecento – diceva la mia fantasia mentre guardavo il piccolo uomo silenzioso che passeggiava fra le aiuole di gerani del lungolago serenissimo e silenziosissimo – senza dubitare un attimo quell’uomo si sarebbe legate le ali di Leonardo alle spalle e anche lui si sarebbe buttato da un monte.

L’altra immagine era più recente, ma apparteneva anch’essa, come la prima, ai regni dell’aria. La figura di quell’uomo sottile e leggero, modellato di soli nervi, dai movimenti leggeri e cauti – mi ha colpito, parlando con il campione, la sua abitudine di evitare tutti i movimenti e i gesti inutili, propria forse dell’uomo di cui, ogni più piccolo gesto, al volante, si ripete con potenza moltiplicata sulla macchina –, mi rammentava le figure d’uomo che, nelle vecchie stampe che illustrano la storia della conquista dell’aria, si vedono alla manovra dei primi apparecchi volanti di Besnier, di Degen, e finalmente, nel 1896, quando il mio uomo era ancora un bambino col grembiule, di Chanute, di Pilcher e di Lilienthal; ometti che sognavano o addirittura tentavano di sfidare gli spazi sospesi o afferrati a leggere ali di giunco e di seta, disegnate, più che come quelle delle rondini, come le ali dei pipistrelli. Nuvolari, un Nuvolari del tempo, mi dicevo, ecco l’uomo che è mancato a Chanute e a Lilienthal per affidarsi con le prime ali, più leggere di quelle dei cervi volanti, ai venti. Se fosse stato così oggi avremmo il suo ritratto in qualche vecchia curiosa e rara incisione in legno, di un gusto, ormai, quasi gozzaniano.

Fantino mancato
Ho domandato a Nuvolari se era mai montato a cavallo. La sua misura è quella dei fantini, la sua figura è quella degli antichi volteggiatori di cavalleria. Alla mia domanda, i suoi occhi si sono illuminati. Quando era ragazzo, infatti, avevano pensato di far di lui un fantino. Ed ecco l’immagine del mio Nuvolari completarsi su uno sfondo di cavalli, nelle infantili sue campagne di Padania. […]

La carrozza a petrolio
Un corridore non è né uno storico né un raccoglitore di vecchie stampe.
Nella lontananza del ricordo, Nuvolari pesca, sorridendo, un nome che appartiene all’araldica dei motori e che sa quasi di storia delle crociate: Hupmobile. È il nome della prima automobile su cui salì, di cui toccò il primo freno, di cui sfiorò il primo pedale. Forse erano già dimenticati i cavalli, forse erano già dimenticate le biciclette del padre e dello zio, campioni italiani di ciclismo in tempi in cui per correre bastava la speranza di una piccola medaglia. È arrivata, non si sa più né da dove né come, la Hupmobile. Nella quiete dei grandi stradali della Padania, esperti fino allora solo del lento passo dei buoi virgiliani, è passata e si è fermata, e Tazio può, a 13 anni, provarla di nascosto, la «carrozza che beve petrolio».

È arrivata con il primo filo della luce elettrica, con la notizia che il primo uomo, un americano, si è levato in volo, con la notizia che un italiano ha inventato un telegrafo con il quale, senza filo, si può parlare attraverso gli oceani. È arrivata la macchina che con il suo passaggio, con il suo fermarsi innanzi al cascinale di Casteldario segnerà il destino di quel monello di 13 anni che è preso dalle infantili speranze di un’evasione verso qualche prova che significhi ardire e conquista. […]

La velocità è nell’istinto di Nuvolari, sorgendo dall’istinto del sangue paterno. È per questo istinto che egli ha cercato qualcosa di sempre più veloce, il cavallo, l’infantile bicicletta, la vecchia motocicletta dello zio, inforcata per correre di nascosto al riparo delle file dei salici, rasentando i fossi; e poi le prime automobili, i primi aeroplani. Se si dedicasse tutto all’aviazione sarebbe un pilota da caccia, e gli piacerebbe certamente di inventare le prime acrobazie, i /tonneaux/, le campane, i /loopings/, il passaggio sotto l’arco di ferro della torre Eiffel. Ma solo la strada dà la misura inebriante della velocità. […]

Sulla lama d’asfalto
La velocità cresce con lui. Dagli ansanti trabiccoli dell’adolescenza si arriverà ai fulminei rossi monoposti. Si affinano i mezzi meccanici, si allargano le piste, e le strade dell’Ottocento, le sassose e polverose strade dell’Ottocento, diventano i lucidi nastri d’asfalto, grigi e neri, del Novecento. La marcia del campione è eguale alla marcia della velocità. La sua corsa è sempre e deve esser sempre ai limiti estremi della resistenza del materiale, ai limiti estremi del pericolo. Tutta la sua vita è scritta con la freccia nervosa e leggera della lancetta del tachimetro. Ogni tempo ha i suoi eremiti e le sue religioni. Mi pare che Nuvolari sia l’eremita della velocità. Certamente non c’è uomo più solo con se stesso di quanto sia il corridore sulla sua macchina quando il distacco del freno lo ha sganciato dalla linea di partenza, e deve tuffarsi d’un balzo, con un rapido accrescere dell’urlo del motore, nel gordo della velocità. Centinaia di migliaia di persone sono ferme, ai bordi della strada o ai lati della pista, a guardare, ma tutte quelle vite e tutti quegli sguardi non sono, per il corridore, altro che una siepe oscura e indistinta da cui non si ode nemmeno giungere la voce incitante. Non ci sono, attorno, né le tribune di un autodromo né le montagne di un circuito, né gli uomini né la natura, né il cielo né la terra. Tutto scompare. L’uomo è solo sul nastro freneticamente sempre più sottile della strada, in equilibrio sulla vertiginosa lama d’asfalto che accorre vertiginosa sotto alle sue ruote, e che all’improvviso si incurva, devia, si snoda a capriccio, si inerpica, discende, ritorna per un tratto rettifilo saettante e poi di nuovo sembra affondare nel tunnel del viale o fra le grigie parapettate di pietra della città.

Al volante l’uomo è solo più che l’eremita nel deserto, più che in una grotta fra le nevi, più che in uno speco sul ciglio di un burrone.