Un recente giudizio espresso da una rivista tedesca, «Bauwelt», sintetizza assai bene l’allarme degli stranieri di fronte all’irresistibile degradazione del nostro patrimonio storico, artistico, paesistico e naturale, in corso da decenni.
In Italia, ha scritto G.R. Hocke, «non si può parlare ancora di difesa dei monumenti in senso sistematico, perché non ne esiste neppure un elenco completo»: è vero che la «brutale offensiva del cemento armato ha subito una sosta, ma gli speculatori si sono arrestati solo a causa della congiuntura economica». […] Nel frattempo decadono monumenti storici di ogni specie e si degradano anche, in modo vergognoso, ambienti insigni, di valore artistico inestimabile […].
Si tratta di una vera e propria forma di incoscienza pubblica. «L’Italia – prosegue l’articolista – che è uno dei Paesi che incassa la maggior quantità di valuta d’oro proprio per il turismo estero» (oltre 600 miliardi l’anno), «spende per il suo patrimonio storico e artistico la somma irrisoria di 2 miliardi», meno della Spagna, Paese assai più povero. […] Addirittura sorprendente è l’indifferenza degli uomini politici, pronti a magnificare a parole le bellezze nazionali, ma che «trascurano completamente nei loro discorsi un problema che per l’Italia è addirittura vitale»: in sostanza, i politici italiani «mancano del senso del tragico che dovrebbero sentire per la distruzione di uno dei più bei Paesi d’Europa».
Sarebbe autentica carità di patria collezionare ogni denuncia, ogni protesta, ogni sintomo di delusione da parte degli stranieri, per quanto riguarda il disfacimento di quello che un tempo era considerato il Giardino d’Europa e il Paese dell’Arte. Possiamo appena ricordare […] l’intervento dei docenti universitari italiani, i quali, «allarmati per le quotidiane offese arrecate alle città e al paesaggio italiano», richiamarono nel 1962 il ministro della Pubblica Istruzione all’urgente, «assoluta necessità di opporsi, con ogni mezzo e contro qualsiasi pressione di interessi estranei, a una situazione che provoca giorno per giorno un accrescimento dei già gravissimi danni arrecati al Paese». Né va dimenticato il voto della commissione italiana dell’unesco del 1963, col quale, mentre si condivideva «il senso di vivissima preoccupazione manifestato sempre più intensamente negli ambienti culturali anche internazionali per i danni già verificatisi e per quelli che, con ormai drammatica evidenza, minacciano un immenso e insostituibile patrimonio di cultura», si rivolgeva una «viva raccomandazione al governo della Repubblica Italiana, perché voglia adottare, con l’urgenza richiesta dalla gravità della situazione, i più idonei provvedimenti di sua competenza».
E c’è stato persino, nello stesso anno, un pronunciamento di funzionari delle Soprintendenze i quali, definita «gravissima la situazione in cui versa il patrimonio archeologico, artistico e paesistico della nazione», proclamavano «l’impossibilità di svolgere nelle attuali condizioni un’azione efficace per la tutela e la divulgazione del patrimonio ad essi affidato», minacciando addirittura le dimissioni e uno sciopero generale, con chiusura di musei, scavi, gallerie, ecc.
Questa è, in breve, l’opinione degli stranieri, della cultura universitaria, delle organizzazioni internazionali, degli stessi funzionari preposti alla tutela: occorre però dire subito che non si tratta solo, come vorrebbero alcuni, di mancanza di fondi, di insufficienza di personale, di inadeguatezza delle leggi esistenti. Sappiamo che i fondi si trovano sempre per iniziative inutili, retoriche, dannose; sappiamo che troppi funzionari sono inferiori al loro compito, e quanto alle leggi esistenti, anche quel poco di buono che esse contengono non viene di regola mai applicato. Il problema è più generale, e consiste nell’arretratezza culturale della nostra società, nella sua incapacità di intendere l’importanza della posta in gioco, nell’assenza di volontà politica, anzi di una vera politica moderna per la conservazione di quanto la storia ha avuto il torto di lasciarci in eredità. Questo è soprattutto evidente se appena consideriamo i due aspetti più gravi della situazione: la distruzione dei centri storici, la distruzione del paesaggio e della natura. Per i centri storici delle nostre città si partì col piede sbagliato subito nell’immediato dopoguerra, quando, in omaggio al senso comune e in assenza di principi urbanistici da parte degli amministratori e dell’opinione pubblica, si pretese, come ai tempi fascisti (e con la stessa fiducia dei medici di Molière nei clisteri e nei salassi), di «adeguare» il nucleo antico della città alla «vita moderna» semplicisticamente per via di sventramenti o di ricostruzioni intensive. I risultati immediati furono l’obbrobrio di via della Conciliazione a Roma (1950), compimento della tabula rasa degli anni trenta, e la ricostruzione di Por Santa Maria a Firenze, dopo le distruzioni della guerra: il caso più clamoroso fu tuttavia Milano, dove le bombe, salutate ipocritamente come «tragico elemento risanatore», servirono invece da gradito incentivo alla speculazione edilizia, e quindi alla massiccia, insensata ricostruzione del centro e alla realizzazione di quella arteria denominata «racchetta», che, come ogni sventramento, avrebbe in seguito ottenuto l’effetto esattamente opposto a quello sperato, determinando la concessione e l’intasamento del centro cittadino. Anche Roma, nel 1952, ci volle riprovare, dopo i disastri del ventennio: venne riproposto un vecchio progetto, che sventrava tutto il centro tra piazza di Spagna e il Tevere, ma la sollevazione delle forze della cultura e della stampa indipendente ottenne l’effetto, insperato, di mandarlo a monte. Da allora cominciò la battaglia di una minoranza preparata e degli enti tecnici qualificati contro il malgoverno delle città italiane […]. I grandi sventramenti diventarono impopolari (perfino Milano dovrà accorgersi dell’errore compiuto, e sospendere definitivamente la realizzazione del secondo tronco della famigerata «racchetta»); ma il cattivo esempio era stato dato, e venne seguito negli anni cinquanta dalle minori e illustri città d’Italia, per provincialismo e in omaggio alla speculazione privata.
In nome dei più frusti luoghi comuni («la città non è un museo», «occorre inserire il nuovo nel vecchio», «anche la nostra epoca deve lasciare la sua impronta», ecc.), amministratori incapaci e architetti da strapazzo diedero l’avvio a tutta una serie di interventi spiccioli nel cuore delle città antiche, demolirono e ricostruirono, allargarono strade, isolarono monumenti, ecc., distruggendo l’ambiente e l’antica struttura urbanistica, attirando traffico, interesse e attività sbagliate in un delicato tessuto del tutto inadatto a sopportarle. Da Pavia a Cremona, da Brescia a Lucca, da Vicenza ad Assisi, da Ferrara a Padova, da Ascoli Piceno a Orvieto, da Napoli a Catania, e via dicendo, le cento città d’Italia passarono l’ora più squallida della loro storia moderna, in base a principi che nulla avevano a che fare con l’urbanistica e l’interesse pubblico.
[…] I centri storici sono un elemento insostituibile della nostra cultura, per il loro valore storico e di ambiente, per la loro struttura composita e stratificata: cosa per cui tutta la città antica è oggi un monumento da salvare. Pretendere di «adeguare i centri antichi alla vita moderna» è un’assurdità, perché demolizioni e ricostruzioni, sventramento, ecc., fanno cascare il centro storico come un castello di carte, generano sovraffollamento, mescolanza di funzioni disparate, paralisi definitiva del traffico. Il rapporto tra antico e nuovo nelle città non va inteso in senso architettonico ma urbanistico: non si tratta cioè di inserire singoli edifici nuovi nel tessuto antico, ma, al contrario, di inserire tutto il centro antico, come organismo unitario, nel quadro generale dei nuovi sviluppi urbani, una volta assegnato ad esso un preciso compito. Il centro storico deve diventare una parte specializzata della città, e accogliere quelle attività che sono compatibili con la sua struttura (residenziali, commerciali di un certo tipo, culturali, ecc.): per questo il piano regolatore deve allontanare da esso le funzioni incompatibili, quelle cioè legate ai più pesanti interessi economici e al traffico motorizzato.
Unico trattamento legittimo cui sottoporre i centri storici è il «risanamento conservativo» (di cui fu fondata la «carta» al convegno di Gubbio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica nel 1960): il che significa restauro e consolidamento, rimozione del sovrastrutture recenti, deturpanti e anti-igieniche, dotazione dei servizi essenziali mancanti, bonifica interna degli edifici, recupero degli spazi una volta liberi all’interno degli isolati, ripristino degli spazi verdi, restituzione ai pedoni di quanto fu fatto per i pedoni. […] Nonostante le proposte, i progetti, gli studi avviati, nessun esperimento concreto di risanamento conservativo è in corso in Italia: e questo, meglio di lunghi discorsi, qualifica la situazione.
Il problema dei centri storici è dunque e soltanto un problema urbanistico. Guardiamo le nostre città, oggi: vi troviamo un nucleo antico, carico di storia e di arte e di ambienti prestigiosi, degradato, manomesso, impraticabile, intasato, quasi non più godibile se non di notte; intorno, invece della città moderna degna degli uomini, una sterminata e squallida periferia, quartieri incivili che smentiscono le regole elementari del vivere associato del nostro tempo. Non abbiamo saputo difendere l’antico e non abbiamo saputo creare il moderno, autentico, umano, razionale. […] Dello stesso genere sono le considerazioni che si debbono fare per l’altro aspetto della questione: la distruzione del verde, del paesaggio e delle risorse naturali.
L’operazione è stata condotta, grosso modo, in due fasi: dapprima, negli anni della furiosa e caotica saturazione edilizia delle città, sono stati distrutti i parchi urbani esistenti, le ville superstiti, divenute miniere d’oro per i proprietari. […]
Contemporaneamente, in tutte le città, con un’insipienza e un sadismo che non ha riscontro in nessuna parte del mondo, è stato eliminato anche l’ultimo filo d’erba alla periferia, e si sono condannati milioni di cittadini a condizioni di vita subumane. A dimostrare la differenza astronomica che ci separa dall’urbanistica dei paesi civili, basterà osservare come sono fatti i grandi quartieri della banlieue parigina, le new towns della regione di Londra, quartieri e città olandesi, svizzere, tedesche, scandinave. Per esempio: i 100 mila abitanti dei nuovi quartieri occidentali di Amsterdam e i 60 mila abitanti di Vällingby (città-satellite di Stoccolma) hanno a disposizione una dotazione di verde pubblico e di impianti ricreativi superiore a tutto il verde pubblico esistente a Roma per 2 milioni e mezzo di abitanti e a Milano per oltre 1 milione e mezzo di abitanti!
Saturate le città, la speculazione edilizia si è poi volta ad aggredire le risorse naturali a più largo raggio, i litorali e le foreste costiere, sfruttando il boom della motorizzazione privata. […] Tutto è avvenuto e avviene senza piani, senza coordinamento tra sfruttamento turistico, economia, infrastrutture, senza visione e programma d’insieme. Per la combinazione di quella che è stata chiamata speculazione «famelico-familiare» e dell’attività delle grosse società immobiliari, […] i litorali sono stati trasformati in congestionati agglomerati lineari, ogni continuità tra costa ed entroterra è stata stroncata, le pinete sono state fatte a pezzi, l’unico principio è stata la conquista della prima linea, si è resa impossibile qualsiasi autentica rigenerazione della natura, con grave riduzione nel tempo e nello spazio dello stesso reddito economico delle zone investite: il sistema indiscriminato della lottizzazione ha privatizzato quanto doveva diventare patrimonio pubblico e permanente della collettività.
Dopo le coste, è stata la volta dei parchi nazionali: è lo scandalo dell’invasione edilizia del Parco Nazionale d’Abruzzo, a partire dal 1960. Il santuario della natura, creato per la protezione della flora e della fauna e per l’educazione dell’uomo a contatto con la natura incontaminata, viene venduto a lotti, vengono abbattute migliaia di piante, tracciate strade per valorizzare i terreni […]. Una campagna di stampa, violenta come non mai, è riuscita ad arrestare il disastro: ma per parecchie migliaia di ettari l’equilibrio biologico di una delle più famose regioni d’Europa è stato distrutto, e inutili sono state le pubbliche deplorazioni dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura.
C’è da domandarsi: perché quest’azione suicida, che tende a distruggere la stessa materia prima del turismo, lo stesso potenziale economico del turismo, l’elemento maggiore (ancora per poco) del prestigio del nostro Paese nel mondo? Se la causa immediata è, ovviamente, la stortura di un ordinamento politico-giuridico che fa della penisola una terra di conquista per le forze più cieche della speculazione privata, le radici prime sembrano risalire a cause più generali, culturali, sociologiche, psicologiche, che andrebbero attentamente studiate.
In campo culturale, ad esempio, scontiamo ancora le conseguenze di una filosofia, l’idealismo, che ha teorizzato seriamente l’inesistenza del bello di natura, anzi della natura stessa, che ha ridotto il «paesaggio» a una labile apparenza soggettiva, che ignora proprio quello che del paesaggio costituisce il contenuto e la sostanza (acqua, aria, montagna, foresta, litorale ecc.) e i suoi scopi primari per la vita dell’uomo: mantenimento del equilibrio biologico del mondo e strumento essenziale della salute pubblica. È questa impostazione, tutta visualista ed estetizzante, che ha ispirato la legge esistente, quella del 1939 per la tutela delle «bellezze panoramiche e naturali»: una legge che riducendo sostanzialmente il paesaggio a uno stato d’animo, a un «quadro» da contemplare, disconosce ogni valore oggettivo e funzione pratica alla natura, ne impedisce qualunque valutazione che non sia discrezionale, legittimando quindi la distruzione. Si capisce che tra lo stato d’animo del contemplante o dell’escursionista e lo stato d’animo del lottizzatore, avrà sempre la meglio quest’ultimo, come regolarmente è capitato in tutti questi anni, con l’approvazione di tutte le autorità. E ai poveri soprintendenti, supposto che avessero tentato di opporsi alla lottizzazione di una pineta, non è restata (dato che siamo in campo «estetico») altra autorità che quella di imporre il colore degli intonaci, la vernice delle recinzioni, la qualità delle tegole.
Una seconda ragione legata alla prima è, nel vuoto della nostra cultura naturalistica e urbanistica, la mentalità di troppi di coloro che operano sul nostro territorio, in particolare gli architetti, gli ingegneri, i «tecnici». […] Non esiste quella complessa disciplina che è l’architettura del paesaggio (non nel paesaggio) che ha reso possibile all’estero la creazione di meravigliosi parchi pubblici, naturali e attrezzati, per il tempo libero popolare. Anche in questo campo siamo stati tagliati fuori dalla storia dell’urbanistica moderna: mentre all’estero la creazione di continua nuova natura è il fondamento dei piani regolatori, secondo norme e standards sempre rispondenti ai crescenti bisogni degli uomini, noi abbiamo continuato a fare giardinetti spartitraffico, aiuole che è proibito calpestare, calpestando invece ogni elementare principio igienico e urbanistico, anteponendo l’arredo floreale alla salute psico-fisica della gente.
In terzo luogo, siamo vittime di tardivi e convulsi fenomeni sociali, e delle conseguenti aberrazioni del comportamento, abilmente sfruttate da chi è interessato al mantenimento del caos. Abbiamo affrontato cose nuove con mentalità vecchia: il rapido passaggio da una condizione agricola e contadina a una condizione urbana ci ha fatto scambiare distruzione della natura per civiltà, disordine territoriale per progresso, aggressiva bruttezza per vitalità, aria inquinata per benessere. Abbiamo usato la rapidità dei trasporti e l’accresciuta mobilità come un mezzo per riprodurre nelle zone turistiche e naturali i peggiori aspetti della vita cittadina (congestione, frastuono, isolamento, ostentazioni dei simboli del benessere, ecc.); stiamo ricoprendo l’Italia da un capo all’altro con una repellente, uniforme crosta semiurbana, che distrugge ogni carattere distintivo di luoghi e appare come il ritratto di un volgo disperso e senza nome.
Queste sommarie indicazioni sono esatte nella misura in cui si possono suggerire indicazioni generali a comprendere un fenomeno deplorevole: nulla sarebbe più sbagliato che il dedurne qualunquisticamente una semplicistica condanna. «Gli-italiani-non-amano-la-natura, gli-italiani-sono-vandali», e simili: dobbiamo respingere questi pigri slogans.
Come possiamo infatti prendercela troppo con la gente, quando da decenni Stato, Comuni, Enti Pubblici e privati non offrono altro esempio che la sistematica distruzione di comprensori naturali, per scopi che sono soltanto ignobili? Quando il verde sotto casa, o il bagno in una intatta zona naturale, anziché un pubblico diritto, sono considerati privilegio dei ricchi, il «paesaggio» un privilegio per un’élite? Quando decenni di propaganda da parte delle forze della speculazione hanno atrofizzato nella gente anche la semplice conoscenza dei propri diritti urbanistici?
[…] Conserveremo qualcosa solo se sapremo, mediante la programmazione economica e la pianificazione urbanistica, creare continuamente una nuova natura, nuovo verde e nuovo paesaggio al servizio degli uomini, e realizzare continuamente nuove risorse ora allo stato potenziale, in nome dell’interesse pubblico. Lo scopo finale, sia della conservazione del patrimonio storico che di quello naturale, deve essere il pubblico godimento, affinché gli italiani, attraverso la conoscenza diretta, ne diventino i gelosi custodi e imparino a considerare il loro territorio come una proprietà comune di cui poter essere fieri di fronte al mondo. […] Valgano, a riprova, alcune cifre spaventose: il 55% dei ragazzi (come hanno accertato gli enti medico-sportivi di Milano e Torino) sono inadatti a praticare qualunque esercizio sportivo per le malformazioni contratte in seguito alla stasi cui sono stati condannati, a casa e a scuola, nelle nostre città: città che, come è noto, sono le più povere di verde pubblico del mondo, e nelle quali la generazione nata col miracolo economico è costretta a trascinarsi nelle strade e in mezzo alle immondizie, per mancanza completa di verde, giardini, parchi, spazi naturali, campi di giuoco e campi sportivi. Ancora, l’Italia è il Paese che detiene il primato dei bambini morti in seguito a incidenti stradali (oltre 500 l’anno): e le ragioni sono le stesse. Abbiamo costruito città omicide, nelle quali lo sfruttamento dell’ultimo metro quadrato è stato più importante della vita dei giovani […]. Il problema è naturalmente politico, e investe tutte le strutture del Paese: il voto di tutti deve essere una legge urbanistica che rinnovi profondamente il nostro ordinamento giuridico in materia di aree fabbricabili, che istituzionalizzi l’interesse pubblico al di sopra dell’intrico degli interessi privati, che renda possibile un razionale assetto del territorio nazionale, ispirato al rispetto dell’uomo e delle sue esigenze anziché, come finora è capitato, al rispetto esclusivo della mappa catastale.
Non dimentichiamo che qualche volta la battaglia è stata coronata da successo: è il caso clamoroso dell’Appia Antica e della sua campagna, che finalmente il nuovo piano regolatore di Roma, accogliendo il voto ultradecennale della cultura e della stampa indipendente, ha destinato a parco pubblico per oltre 2000 ettari. […] È una conquista memorabile, ma soltanto un inizio, una premessa, un punto di partenza: per fare progressi sulla via delle realizzazioni concrete, sull’Appia come nel resto dell’Italia, dobbiamo renderci conto che partiamo da zero.