Era uscito dall’Italia nel ’41 per via della questione razziale. Era un tipo taciturno, di media altezza, dai baffi enormi, biondi. Abitava a Milano una cameretta all’albergo del Grillo, in Città degli Studi. Nelle sere d’estate dalla sua finestra si vedevano le coppie perdersi sulla grande macchia di piazza Leonardo Da Vinci. Alcune entravano nell’albergo a ballare in giardino. Mi invitò varie volte ma non ci andai mai. L’albergo distava pochi passi dalla redazione di un noto giornale umoristico. Fu questa vicinanza, credo, che lo indusse a disegnare le sue prime battute.
Lo vidi a Roma una sera che pedinava la sua ombra intorno al marciapiede del caffè Aragno. Cercava qualcuno con cui parlare. A quel tempo disegnava tutto in tondo, le facce, i nasi, le figure, non aveva ancora scoperto Picasso e i capricci di Klee. A Roma i suoi disegni lasciavano indifferenti, abituati i romani ad avere sott’occhio qualcosa di più concreto. I figli di Scipione sono rimasti sempre fedeli a Grosz, da Maccari in giù. Cenammo insieme in una trattoria del Tritone. Eravamo entrambi molto giovani ed avevamo più voglia di donne che di lavoro. Una sola cosa mi chiese: volle sapere se i miei scarabocchi erano fatti direttamente a penna. Credo che a questo annettesse molta importanza per via della spontaneità, costretto com’era a disegnare tutto con scrupolo, cancellando, ripulendo. Penso ancora oggi che questo costituisca il suo dilemma grafico; la mancanza di spontaneità. Lo avverto in alcuni disegni di The Art of Living, dove tenta di liberarsi dalla bella calligrafia scivolando in tentativi sterili fatti di tremolii di penna. A quel tempo mi passavano sottomano molti disegni e ricordo, tra gli altri, gli originali di Maccari, precisi, immediati, fatti con la penna stilografica.
A Milano ci vedevamo spesso. La questione razziale lo mise al bando e fu costretto per lavorare a camuffare il suo segno. Dal tondo passò al triangolo, un disegno tutto a linee ancora incerto e meno efficace di quello d’oggi. Tuttavia aveva un’inconfondibile personalità. C’era fra noi due qualcosa di imponderabile che non ci permise di diventare amici. Io lo disprezzavo spesso con l’esuberanza della mia meridionalità; lui, credo, mai con la ponderazione della sua natura e col controllo delle reazioni nervose.
Capiva bene le cose e le masticava come croccanti. Prendeva ovunque. Un giorno andai nella sua camera a vedere un quadro che aveva fatto. Si trattava di un disegno colorato a tempera. Uno dei suoi soliti paesaggi pieno di pupazzetti, di tranvie, di alberi, di animali, di vecchie signore. Quel giorno capii che non sarebbe mai diventato pittore. Gli mancava e gli manca tuttora il vuoto, il silenzio, la solitudine, lo spazio e l’aria che crea poesia e fa opera d’arte. La sua fuga in America ebbe dei risultati positivi. L’America era il suo paese; benessere e arte camuffata, ingenua, provinciale, derivati francesi, messicani, peruviani. L’America di Salvador Dalí, il pittore parrucchiere per signore, l’America di Cecil B. DeMille, di Shirley Temple e della Coca-Cola.
Gli americani ridono per quelle cose che ci lasciano perplessi o indifferenti, abituati come siamo al paragone con un passato classico. In Italia Steinberg sarebbe diventato tutt’al più il Pio Semeghini dell’umorismo e in America ha fatto ridere una categoria di yankee con le sue osservazioni a fior di pelle. Egli non sarà mai un clinico come Grosz che in America non ha avuto fortuna.
Partì insaccando nella valigia tutto quello che gli poteva servire dall’Italia: il ricordo delle strade, Leo Longanesi e un pezzetto di Bruno Munari. Ma le strade d’Italia, Steinberg le ha trattate come un regista americano. Ha visto le facciate, i fronzoli di uno stile baroccheggiante senza penetrare nelle case, nei cortili. Allo stesso modo ha parodiato Picasso e Klee senza capire i valori plastici dell’uno e la musica dell’altro.
La sua erudizione in tema d’arte moderna si limita a un superficiale gioco di fogliame barocco e di cornici stile liberty. Per questo è da preferirsi lo Steinberg dei panorami ritrovabili nelle tavole della metropolitana e nei magazzini affollati della City, dove l’arte c’entra come un gioco infantile.