Quanto più Pasolini diventa provocatorio e incomodo, tanto più il suo pubblico si allarga; quanto più lo circonda la scandalizzata deplorazione del mondo borghese, tanto più diventa commerciabile e commerciato. Un personaggio che «fa notizia», che «fa opinione», sempre consultato qualunque cosa accada o qualunque sia il problema in discussione
Vola a Parigi per vedere la Callas. Corre a Venezia in tribunale. Si sposta a Catania per girare la prima parte di «Porcile», un film in due episodi: protagonisti, un civilizzato cannibale e un giovanotto affetto da bestialità, che si innamora soltanto dei maiali. Va a Torino per dirigere la messa in scena teatrale di «Orgia». Scappa a Grado per sorvegliare i lavori di una casa che sta facendosi costruire. Telefona a New York: Marlon Brando sarebbe libero di interpretare, nella seconda metà del 1969, il suo film dedicato a san Paolo? Una smaniosa impazienza, un avido e sempre insaziato moltiplicarsi di progetti e di realizzazioni, un imperioso bisogno di agire, di muoversi, di essere presente. Una sorta di febbre sembra dominare Pier Paolo Pasolini: e lo ha reso certo l’intellettuale più discusso dell’anno, la figura più irritante e insieme inquietante della cultura italiana. Allora vediamolo da vicino. Ritratto dell’artista a quasi 50 anni. Pasolini in casa sua. La casa è bella, luminosa, quieta. Un palazzo nuovo costruito su un viale silenzioso dell’EUR a Roma, bordato di alberi, vicinissimo a una glaciale e monumentale chiesa moderna. Affacciato dall’alto su una pianura che è ancora grigio-selvatica campagna romana. Protetto: cancello di ferro sbarrato, citofono, accorto portinaio in divisa. Completo, s’intende, di garage privato, dove sostano anche le automobili dello scrittore: una Ferrari per i viaggi lunghi, una Giulietta per gli amici, una Mini Morris per le corse in città. L’appartamento è grande. Ingresso padronale e ingresso di servizio. Atrio, vasto salotto, studio, stanze da letto, doppi servizi, cucina in formica. Arredato secondo tutte le regole già un po’ antiquate dell’illuminato benvivere e benessere borghese: mobili Ottocento, soprammobili esotici ricordo di viaggi in Africa o in India, divani di velluto, tappeti, quadri di buon autore, portacenere di madreperla (intatti: lui non fuma). Poltrona a dondolo, come quella di Kennedy: con cuscinetto di cretonne a fiori. Lievi tendaggi candidi. Un ritratto del padrone di casa: con un garofano in bocca, come Beloyannis. Pavimenti lucidi, ordine e pulizia rigorosi, nitore. In questa casa (schermo di rispettabilità troppo programmatica e ovvia per non incoraggiare il sospetto di un rimorso, di una nostalgia o della realizzazione di un vecchio sogno piccolo-borghese) Pasolini vive con sua madre e con una giovane nipote che gli fa un poco da segretaria.
In questa casa (nello studio, certo) Pasolini siede stamattina su un seggiolone antico dietro la scrivania scura, tenendosi dritto con le spalle. È molto magro, di una magrezza consumata e giovanile che rende più aguzzi gli zigomi pronunciati, più profondi gli occhi inquieti, più drammatico il viso scavato. Un viso singolare e fotogenico. Anche se non lo avessero spinto la curiosità, il desiderio di gioco e l’esibizionismo, avrebbe potuto comunque fare l’attore: in parti di povero, di santo, di gangster professionale o di pugile sfinito nei film americani degli anni quaranta; nella parte di un poeta o magari di una apparizione simbolica (il Destino, la Morte, cose così) in un film francese del 1937. Invece ha fatto l’attore recitando un piccolo bandito romano con un braccio solo trafficante di borsa nera, e un killer messicano ma western, con sombrero: in due film di Carlo Lizzani. E anche in un film diretto da se stesso ha recitato, «Edipo re»: nella parte di un senatore con la faccia e la testa avvolte in una cuffia di conchiglie marine. Pasolini siede dietro la scrivania con estrema, persino eccessiva compostezza: i piccoli piedi calzati di stivaletti con l’elastico, all’antica e alla moda, poggiano appena sul tappeto bianco. Ha, come sempre, un’aria ferocemente inappuntabile. Fresca, ordinata e assestata: i capelli ben pettinati, la persona ben curata, gli abiti ben stirati che paiono sempre indossati per la prima volta. Essere elegante non gli dispiace, dell’eleganza segue anche i sussulti: cravatte o camicie fiorite, camicie di voile leggero accostate al corpo dalle pinces, pantaloni aderenti al bacino e slargati in fondo, alte cinture di cuoio con pesanti fibbie metalliche, corti giubbetti di chevreau laccato. Ogni tanto qualche prevedibile eccentricità: se va in America si compra subito il maglione da universitario o la giacca a vento rossa, l’impermeabile da poliziotto privato o la camicia da carcerato, con il numero stampato ben chiaro sul petto. Ma sono scherzi, capricci da turista presto messi da parte.
Con la sua aria linda, la sua camicia a disegni geometrici giallo dorati e i suoi stivaletti da dandy, Pasolini parla stamattina di cose che gli stanno a cuore. La sua voce è bassa, educata, soave, di una dolcezza così intensa da sfiorare a volte la leziosità, di una serietà così totale da lasciar trasparire a volte una certa pedanteria predicatoria. Le sue frasi sono belle e ben costruite. Dense di espressioni colte. Fitte di vocaboli importanti (esistenziale, marxista, crudeltà, diversità, enunciazioni, arcaico, ispirazione, fede, bellezza) pronunciati senza pudori. Ricche di aggettivi inconsueti (atroce, luccicante, struggente, teologico, sublime, lazzaroncello) usati con naturalezza. Piene di idee sostenute senza cinismo, di confessioni o contraddizioni esposte senza paura. Il fervore appassionato e l’irrompere a tratti di espressioni quotidiane gli evitano quasi sempre di diventare noioso o accademico. Gli mancano del tutto la volgarità verbale e il senso dell’umorismo: il che ha spesso l’effetto di mettere meccanicamente l’interlocutore, specie se italiano, in posizione di inferiorità. Il suo modo di rivolgersi all’interlocutore è aperto, fiducioso. Semplice, anche se tutt’altro che ingenuo. Pasolini sembra credere profondamente ed emotivamente in tutto ciò che dice, almeno nel momento in cui lo dice. Il suo discorso non è mai stracco, casuale o distratto; ma sempre attento, impegnato, impregnato di ragionevolezza e di pazienza didascalica. Appare appassionato e sincero. Questo gli dà un grande fascino oratorio e una straordinaria capacità di convinzione: come il pifferaio di Hamelin, quando parla riesce quasi sempre a influenzare il suo pubblico, ad incantarlo, a trascinarselo dietro dovunque vuole. Il conformismo borghese della casa, degli abiti, dei modi, della parte palese della sua vita, è singolare in Pasolini, che dell’odio e della ripugnanza per la classe e la mentalità borghese («un marchio d’infamia, una malattia») ha fatto la propria divisa morale, estetica e politica. Ancora di più contrasta con le sue opere recenti, nelle quali il populismo lirico, il misticismo estetizzante e il civismo emotivo sono stati sostituiti dalla violenza, dalla provocazione, dall’orrore e dalla tragedia. Anche di questo parliamo, stamattina.
«Qualche tempo fa», racconta Pasolini, «ho avuto una grave malattia, un’ulcera che mi ha portato vicino alla morte e mi ha tenuto un mese a letto, immobile. In quel mese ho letto certi testi. E dopo, confusamente, ho scritto sei tragedie. Era il periodo della protesta violenta dei negri; l’estate precedente avevo visto la violenza nel mondo del Village a New York. Forse c’è entrato un fatto psicologico, o anche il trauma fisico. Non so. Da tutti questi elementi mi è nata l’ispirazione di un cinema che si potrebbe definire cinema della crudeltà. Cioè di film che esprimano una rivolta esistenziale irrazionale, violenta, fisica: in contrasto con la razionale rivolta marxista contro la società. “Teorema” porta il segno di questa violenza: è una parabola tutta sopra le righe e la seconda parte è terribile, presenta una gamma di sentimenti e di figure che imbarazzano, che urlano, che si denudano, che gridano la propria disperazione, che danno fastidio. Lo stesso si può dire di “Porcile”, il mio nuovo film. Naturalmente, la stampa fascista si è sfrenata in gran spiritosaggini su questo titolo: non gli è venuto neppure in mente che i porci sono loro. Il film racconta due storie atroci: il cannibalismo e la bestialità ne sono soltanto i dati esterni. Nell’identico filone rientra il film che progetto di dirigere con Maria Callas come protagonista, “Medea”: crudeltà, violenza, strage, distruzione e autodistruzione. I motivi di questa scelta… Un motivo può essere il desiderio di provocare, di scuotere: e di riproporre l’orribile ma reale dimensione della tragedia in un mondo che vive nella tragedia, ma che cerca di nasconderla sotto un’apparenza di falsa civilizzazione, di razionalità e di opulenza. Ma poi ci sono altri motivi, ragioni più profonde.»
«Teorema» è l’unico dei film appartenenti a questo nuovo corso che sia stato presentato al pubblico: e subito è stato fermato dall’intervento moralizzante della magistratura. «Io non mi sento colpevole di nessun reato» dice Pasolini «e la censura mi colpisce sino a un certo punto. A me interessa fare i film, interessa che li vedano certe persone. Il resto è un problema del produttore. Naturalmente, capisco benissimo perché “Teorema” sia parso scandaloso. I moralisti sono terrorizzati da ogni verità sulla famiglia. I difensori dell’ordine sociale costituito non sopportano l’immagine di una famiglia straziata infelice e non “familiare” come quella del film. Io non ho nulla contro la famiglia: lei lo ha visto, vivo con mia madre. Ma debbo dire che è una struttura arcaica, il covo dei sentimenti patologici preistorici dell’uomo. I moralisti, poi, sono sempre spaventati dall’argomento teologico.»
Nonostante la scomodità dell’argomento teologico, è ancora su questo argomento che Pasolini sta preparando un altro film, da girare subito dopo o subito prima «Medea»: «Il titolo sarà appunto “Storia teologica”» spiega. «Racconterà tutta la vita di san Paolo, ma trasposta nel mondo moderno: per via di analogie. La capitale del potere, Roma, sarà invece New York. Il centro della cultura, Gerusalemme, sarà invece Parigi. Proprio a Parigi il film comincia, durante l’occupazione nazista: con il problema della resistenza all’oppressore, della rivolta attiva o passiva contro l’invasore straniero: lo stesso problema che si poneva allora nei confronti dei romani. La situazione dei negri o dei poveri oggi è la stessa degli schiavi allora. Il film implica tutti gli interrogativi del mondo contemporaneo: e la risposta è sempre quella santa. Mi interessa il contrasto tra due lati della personalità di san Paolo: da un lato il prete organizzatore, l’ex fariseo legalitario, prude e in fondo conformista; dall’altro lato, semplicemente, il santo».
Quindi ecco la collettività paleocristiana dei fedeli in opposizione alla gerarchia ecclesiastica, il sacerdote come strumento organizzativo anziché come unico depositario della verità rivelata, il legame con Dio realizzato direttamente invece che con la mediazione degli interpreti autorizzati, la santità come unica salvezza: Pasolini interverrà anche su questo che è uno dei problemi centrali del cattolicesimo contemporaneo. Proprio come, nel corso dell’ultimo anno, è intervenuto puntualmente e vivacemente su ogni altra questione di attualità. Nasce la rivolta del movimento studentesco, e Pasolini dice la sua: con la famosa poesia contro gli studenti che gli attira infinite antipatie, simpatie umilianti e polemiche aspre. Arriva la scadenza del premio Strega, e Pasolini si mette alla testa della contestazione dei premi letterari: anche se solo pochi giorni prima aveva inviato a dodici giurati un’appassionata lettera invocante il voto per il suo libro in concorso, «Teorema»; anche se qualche mese dopo sarà egli stesso membro di una giuria letteraria, quella del premio Zafferana. Si inaugura il Festival cinematografico di Venezia, e Pasolini guida il gruppo dei contestatori dei festival cinematografici: anche se con mille tormenti, esitazioni, slanci, pentimenti e contraddizioni. Si riunisce a Ca’ Foscari l’assemblea del movimento studentesco per organizzare la propria azione invernale, e Pasolini va all’assemblea: anche se prevede, come infatti avviene, di venir respinto, insultato, persino malmenato. Si sviluppa in tutto il mondo la ribellione giovanile, l’estremismo neorivoluzionario «cinese», l’intransigenza guevarista, e Pasolini è pronto a fronteggiarli, inventando tra l’altro un felice slogan ideologico: «La mia scelta è contro il fascismo di sinistra. Il vecchio conformismo accademico dell’establishment mi è totalmente estraneo: ho verso di esso una ripugnanza ormai abitudinaria. Il nuovo conformismo è un momento intellettuale che dominerà a lungo il nostro futuro: ne è nato subito un cumulo di discriminazioni, vigliaccherie, condanne, ricatti, linciaggi, calcoli, esaltazioni: insomma, il terrore. La mia scelta è contro il fascismo di sinistra».
Non diversamente da François Mauriac, redige per un settimanale a rotocalco una rubrica personale in cui, grillo parlante informato e tempestivo, esamina gli avvenimenti e le persone del momento. Nonostante affermi di essere «un comunista dissidente, a sinistra del pci, solo», e sia certo uno spirito indipendente, i suoi giudizi e le sue opinioni coincidono spesso con le posizioni del radicalismo, a volte addirittura con i luoghi comuni del buon senso. Nenni? «Egli mi sembra l’uomo più simpatico del mondo politico italiano». Gli intellettuali affascinati dalla rivolta studentesca? «Mi fanno così ridere certi miei coetanei che improvvisamente riscoprono la vita e ti si presentano ridendo ironici, come se tu fossi rimasto vecchio e loro fossero di colpo tornati giovani. È una luce molto tipica, quella dei loro occhi: la luce che c’è talvolta nei pazzi. Ed è proprio per questo che talvolta sono simpatici. Altre volte è una luce odiosa: ricattatoria, ostile, piena del piacere sgradevole di vederti finito, superato. È una nevrosi di ansia mal capitalizzata, che rende sicari del terrorismo». Gli omosessuali? «Anch’io ho in me un momento, superato nella coscienza ma rimasto nella meccanica fatale di un’educazione, in cui verso l’omosessualità ho un moto di avversione razzistica. Mi pare, almeno per un infinitesimo di secondo, che l’omosessualità designi in un altro un carattere di inferiorità umana e civile. Tanto è il terrore di un’opinione pubblica terrorizzante».
La poesia d’avanguardia? «La trasgressione al complesso di regole che seguiamo parlando, fatta dai poeti d’avanguardia, è portata velleitariamente a tali conseguenze, da non distruggere le regole: ma da farle rimpiangere». I lettori di quel settimanale sono più fortunati degli amici dello scrittore: possono conoscere la sua opinione su tutto e su tutti, mentre gli amici trovano sempre più difficile avere con lui una vera discussione. Spesso Pasolini, interrogato su un qualsiasi argomento, li rimanda ad un proprio articolo appena scritto, ad un film appena uscito, ad un saggio di prossima pubblicazione, a una prefazione recente. In realtà ogni idea, riflessione, sensazione, giudizio o esperienza dello scrittore può essere ormai utilizzata in forma pubblica, può trasformarsi subito in film, articolo, intervista, saggio, rubrica, prefazione, intervento televisivo: il mercato è più che pronto a riceverla. Curiosamente, quanto più Pasolini diventa provocatorio e incomodo, tanto più il suo pubblico si allarga. Curiosamente, quanto più lo circonda la scandalizzata deplorazione del mondo borghese, tanto più diventa, per così dire, commerciale: e commerciabile, e commerciato. Curiosamente, quanto più si accentua la sua eccentricità e diversità rispetto agli altri intellettuali italiani, tanto più Pasolini diventa un personaggio pubblico. Cioè un personaggio sempre fotografato ovunque vada, sempre consultato qualunque cosa accada o qualunque sia il problema in discussione, sempre seguito dalla curiosità, sempre considerato in qualche modo autorevole: un personaggio, insomma, che «fa notizia», che «fa opinione».
Curiosamente: ma non tanto, forse. Il mondo letterario francese, per esempio, è stato spesso dominato da personaggi simili, «scandalosi» e nello stesso tempo popolari, autorevoli: per dire, André Gide nell’accezione seria, o Jean Cocteau nell’accezione frivola.
Dal 1961, anno in cui debuttò nella regia con «Accattone», Pasolini ha diretto sette film e tre sketches cinematografici. Dal 1964, anno in cui uscì «Poesia in forma di rosa», Pasolini non ha più pubblicato un volume di versi. Dal 1965, anno in cui venne pubblicato «Alì dagli occhi azzurri», una raccolta di prose quasi tutte risalenti a molto tempo prima, Pasolini non ha più scritto un libro: «Teorema», del 1968, è la sceneggiatura del film omonimo più che un romanzo-saggio. La celebrità può essere un piacere per la vanità e una difesa per la personalità. Il presenzialismo e l’attivismo frenetico possono essere forse un modo di inseguire o magari di fermare la giovinezza che scivola via.
Essere un personaggio pubblico comporta quasi sempre un rischio grave: la perdita di contatto con se stessi. Quindi l’estroversione, il bisogno degli altri, la necessità continua di una compagnia e di un pubblico. Quindi la ripugnanza, addirittura l’odio insormontabile, per quella fatica solitaria e ingrata che è il lavoro dello scrittore.