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Chi ha paura di James Bond?

Tirate le somme, questo James Bond non ci va a genio. Abbiamo visto tutti e tre i film della serie Agente 007, abbiamo letto uno dei romanzi di Ian Fleming (curiosità professionale, la nostra: volevamo controllare i modi, la tecnica della trasposizione dalla pagina allo schermo), abbiamo riflettuto sulle nostre reazioni di spettatori divertiti, abbiamo meditato su quelle di critici preoccupati o indignati e siamo arrivati alla conclusione che James Bond ci è un po’ antipatico.

Intendiamoci: è una reazione psicologica, la nostra, e aliena da ogni moralismo. Mentre vedevamo Goldfinger, ci siamo sorpresi a fare, in cuor nostro, il tifo proprio per Auric Goldfinger, il «villain», il cattivo della storia. Sapevamo, ovviamente, che James Bond avrebbe vinto e che il suo bieco rivale sarebbe stato sconfitto: la logica del film, l’avvenire dei produttori Saltzman e Broccoli e la sopravvivenza degli Stati Uniti lo esigevano ma, in cuor nostro, eravamo dispiaciuti. […] Perché, allora?, ci domandavamo. La risposta è semplice: perché Goidfinger è intelligente. Qualcosa di più, anzi: è geniale. Riconosciamolo onestamente: Auric Goldfinger è, almeno nei limiti della narrativa ferroviaria e snobistica di Ian Fleming, un Genio del Male. E del genio ha la qualità suprema: la fantasia che, come si sa, è qualcosa di più e di diverso dall’immaginazione. Ascoltate quel che dice nel romanzo, a pagina 127: «Questa sarà la mia ultima impresa, Mr Bond, e anche la più importante… L’uomo ha scalato l’Everest e ha toccato le profondità dell’oceano. Ha lanciato razzi nello spazio e ha scisso l’atomo. Ha inventato, ideato, creato in tutti i settori dell’attività umana e sempre ha trionfato, ha fatto dei miracoli. Ho detto tutti i settori, ma ne è stato trascurato uno, Mr Bond. E cioè l’attività umana comunemente conosciuta sotto il nome di crimine. I cosiddetti grandi crimini commessi dagli individui… non parlo naturalmente delle loro stupide guerre, quell’assurdo distruggersi l’un l’altro… i cosiddetti grandi crimini, dicevo, non sono che miserabili sciocchezze: minuscole rapine in banca, truffe di nessuna importanza, falsificazioni di qualche soldino. Eppure, a portata di mano, a poche centinaia di miglia da qui, esiste l’occasione per il più grande crimine della storia. La scena è pronta, il premio gigantesco attende il vincitore, mancano solo gli attori. Ma finalmente è giunto il regista, Mr Bond… e ha già scelto il suo complesso. Il copione verrà letto oggi pomeriggio agli attori principali, poi cominceranno le prove e in una settimana s’alzerà il sipario per l’unica rappresentazione dello spettacolo. Poi verranno gli applausi, gli applausi per il più grande colpo di tutti i tempi. E per secoli, Mr Bond, l’eco di quegli applausi risuonerà nel mondo».

È mal tradotto, magari un tantinello enfatico ma è un efficace esempio di prosa oratoria: Goldfinger ha la coscienza del proprio genio. E chi gli manda a monte il geniale piano? Un James Bond qualsiasi che non è un campione d’intelligenza […]. Risuona ancora, applicata al cinema, la severa deplorazione di Bernard Bergonzi che nel lontano 1958 scriveva sul New Stateman: «Il fatto che i suoi libri (di Ian Fleming) siano pubblicati da una casa molto stimata, e siano regolarmente recensiti – e molto lodati – nei nostri orgogliosi settimanali intellettuali, dice certamente di più sull’attuale stato della nostra cultura che un intero volume di astratte denunce».

È, dunque, nostro dovere preoccuparci per il successo di James Bond, aver paura della mistica di 007, denunciare l’esaltazione della violenza, il velenoso erotismo, l’abbietto sadismo, il razzismo mimetizzato che vengono propinati agli spettatori del corrotto mondo occidentale?

Quest’abnorme successo non è stato improvviso. Dr No (Agente 007-Licenza d’uccidere, 1962) fece ingenti incassi soltanto in Inghilterra dove già da qualche anno i romanzi di Ian Fleming avevano una tiratura media che sfiorava il milione di copie; in Italia passò quasi inosservato. From Russia with love (Agente 007-Dalla Russia con amore, 1963) raddoppiò il suo successo inglese, s’affermò sul mercato nordamericano ma su quello italiano occupò, alla fine della stagione 1963-64, soltanto il 22° posto nella graduatoria degli incassi. Con Goldfinger (Agente 007-Missione Goldfinger, 1964) il fenomeno raggiunge il diapason. A Londra si superano gli incassi, già altissimi, del film precedente; negli Stati Uniti proiettato in ventinove sale, Goldfinger incassa nella prima settimana più di un milione di dollari e balza, superando My Fair Lady, in testa alla graduatoria degli incassi, rimanendovi per tre mesi. […]

Quel che è successo, a Milano e a Roma, all’ingresso dei locali in cui si proiettava Goldfinger, era uno spettacolo come non se ne vedeva dai giorni infuocati della polemica su La dolce vita: code tumultuose, vetrate in frantumi sotto la pressione della calca, cassiere allucinate per la stanchezza, svenimenti di spettatrici impellicciate, poliziotti basiti e travolti, appelli alla Volante.

E la critica? Cominciamo da un’osservazione ovvia. Le imprese di James Bond sono tutte costruite su una formula: inviato da «M», Prospero del Servizio Segreto (la definizione è di un critico inglese), Bond va, da solo, all’assalto di una fortezza fatata, dotata di un lussuoso arredamento e munita dei più moderni e fantasiosi ritrovati tecnologici. L’orco (Dr No, Mr Big, Ernst Stavro Blofeld, Goldfinger) lo cattura; c’è un gran buscherio, tutto salta in aria, l’orco muore e James Bond ne esce per il rotto della cuffia in amabile compagnia. Non è una formula magica, ma funziona. […]

Su Goldfinger quasi tutti sono d’accordo. I suoi dieci minuti più clamorosamente scattanti sono i primi, quelli che precedono i titoli di testa e che non hanno nulla da spartire con la vicenda: James Bond che, dopo un sabotaggio al tritolo, si toglie la tuta di spugna, scopre un’immacolata «dinner jacket» e, datasi una ravviatina ai risvolti, rientra nel «night club»; James Bond che, abbracciando una donna, vede riflessa nei suoi occhi (trovata alla Hitchcock…) la figura di un aggressore che lo sta attaccando alle spalle, lo scaraventa in un bagno pieno d’acqua nel quale, in mancanza d’altro, scaglia una lampada ad arco.

[…] Il vero «éclat» di Goldfinger, e una delle ragioni principali del suo successo: l’incredibile Aston Martin DB5 coupé (costo: 17 milioni di lire!) con radar e tabella topografica, cambio automatico di targa, vetri a prova di proiettile, paratie a prova di bomba, mitragliatrici nei fanali anteriori come un aereo da caccia, sedile eiettabile, spargitore d’olio, cortina fumogena e mozzi trinciatori di pneumatici (una strizzatina d’occhio alla corsa delle bighe di Ben-Hur…); la vecchia Rolls-Royce con le portiere e i parafanghi smontabili in oro massiccio; la ridicola sega elettrica a raggi che perfora il ferro come il burro; la pistola narcotica; la radiotrasmittente nel tacco delle scarpe; la partita a ramino radio-guidata… Raramente abbiamo visto un film in cui, come in Goldfinger, il contributo registico è subordinato alla strategia produttiva e, in modo particolare, ai tecnici degli effetti speciali. Il vero asso del film è, sotto quest’aspetto, lo scenografo Ken Adam (che collaborò con Stanley Kubrick per Il dottor Stranamore) […].

La ricetta dei film di James Bond è facilmente analizzabile: oltre ai due ingredienti principali del sesso e della violenza (ma il primo sviluppato sulle linee di un erotismo patinato alla Playboy con qualche incursione prudente anche se spettacolare nel campo delle aberrazioni; la seconda con un’accentuazione di tipo masochistico, rilevabile soprattutto in Goldfinger), c’è l’esotismo con una precisa componente di turismo di lusso (spiagge celebri, grandi alberghi, viaggi in aereo, eccetera), lo snobismo della «high life» internazionale (i gusti raffinati, l’eleganza di James Bond che, però, nei film sono molto meno sofisticati e sottolineati che nelle pagine di Fleming) e l’aspetto tecnologico ai limiti della «science fiction». Infine, però, esiste nei tre film anche una lucida volontà di demistificazione che ne è il filo segreto, il segno dell’intelligenza.

Si sente, insomma, che gli autori puntano sulle carte dell’avventura, dell’emozione, dello spettacolo, del sensazionalismo ma con quella dose minima di provocazione (e, qualche volta, di autoironia) che presuppone un distacco dalla materia narrativa: le sballano grosse ma a carte scoperte, chiedendo, almeno in una certa misura, la complicità dello spettatore.

Gli applausi che quasi ognuno di noi ha udito durante la proiezione di Goldfinger sono piuttosto eloquenti. Non sono certamente gli applausi di gente che non si rende conto di quel che sta vedendo e che si sottopone, in beata e stolida incoscienza, ai perfidi stratagemmi di persuasori occulti. […]

Per Goldfinger s’è molto parlato di sadomasochismo. Dal primo al terzo film c’è, infatti, una sensibile evoluzione nel comportamento di James Bond che passa da una funzione attiva a una funzione passiva: chi tiene il mestolo in mano è, appunto, Auric Goldfinger. Ma non bisogna esagerare.

Come ha scritto un intelligente critico inglese, Penelope Houston, in Goldfinger Bond è trasformato nell’equivalente umano del gatto nei «cartoons» di Tom and Jerry: ne possiede la stessa spaventosa elasticità e la stessa capacità di assorbire le punizioni. Siamo veramente convinti che il pubblico non se ne renda conto e non stia, invece, al giuoco, attratto dal suo carattere di «entertainment» puro, di favola avventurosa che s’esaurisce in se stessa, senza implicazioni ideologiche? […]
C’è, infine, chi lo allinea agli eroi delle storie a quadretti – Mandrake, Flash Gordon, Superman –, cioè agli epigoni degli antichi semidei, «eroi mitici che non hanno problemi ma un destino e non posseggono un’anima, poiché la loro missione li tiene lontani dalla coscienza». […]

C’è una buona dose di paternalismo in questo atteggiamento e si sa che spesso i padri si preoccupano eccessivamente delle novità che piacciono ai figli. In ogni modo non sono certamente i figli che prendono troppo sul serio James Bond.