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L’istruzione musicale in Italia

L’Italia, nota come «il paese del bel canto», è in realtà il paese dove la musica viene quasi totalmente ignorata. Cosa si fa, nelle scuole specializzate e non, per la cultura musicale dei ragazzi italiani? Poco o niente. L’educazione musicale è un obbiettivo da perseguire con decisione e immediatezza. Occorre riformare le strutture tradizionali dei conservatori e portare l’insegnamento della musica in tutte le scuole, dalle elementari all’università

 

Quando si parla dei rapporti difficili, ambigui o mancati, tra gli italiani e la musica, c’è una querelle vecchia di sei secoli che porta subito al centro dell’argomento. Tra la fine del secolo xiii e la metà del successivo si verifica infatti un fenomeno impressionante: muore la monodia. Fino ad allora la musica era stata non solo canto ma soprattutto canto monodico, cioè una sola pura linea vocale. Dopo di allora la musica sarà quasi completamente diversa: intreccio di parti, ricerca di amalgama sonori, ardimento armonico. Perché la cosa ci riguarda? Perché questo nuovo tipo di musica, cioè la polifonia, è nato nell’Europa nord-occidentale, così che mentre francesi e inglesi avviavano le prime costruzioni armoniche e contrappuntistiche, gli italiani per un paio di secoli ancora, secondo gli storici, continuarono a cantare monodicamente come rapiti dall’incanto della «vox sola». Basta questa sfasatura perché alcuni ne facciano derivare una conseguenza capitale. Da una parte, essi dicono, al Nord (in Francia, in Inghilterra, ma poi in Germania soprattutto) la polifonia, il sinfonismo, la strumentalità, in una parola la riflessione e il pensiero. Da noi invece la vocalità, l’ispirazione, il sentimento, l’emotività, il teatro, cioè il primato di una linea che, appena con qualche sforzatura, parte dal canto gregoriano e attraverso l’«ars nova», il dramma in musica del Seicento, l’opera settecentesca composta di arie e cavatine, arriva al melodramma ottocentesco a base di tenori e prime donne e approda finalmente alla cantante di oggi incapace di mettere insieme tre note ma abilmente amplificata dai juke-boxes. Naturalmente non tutti gli storici della musica sono d’accordo con questa tesi il cui limite è forse un certo schematismo. C’è però chi obietta: vorrà anche dire qualcosa il fatto che la grande musica sinfonica sia prevalentemente tedesca e la grande musica lirica prevalentemente italiana. Da questo punto di vista rintracciare l’origine di questa frattura nella divisione tra monodia e polifonia serve se non altro a fissare un punto d’inizio.

In una recente polemica tra Franco Cordero, antropologo, e Fedele D’Amico, critico musicale, sono emerse però anche opinioni più radicali che vale la pena di riassumere. Aveva sostenuto Cordero: «La maggior cultura musicale dei paesi tedeschi e anglosassoni si spiega in gran parte con la riforma protestante. […] La pietà religiosa diventa ricerca di un canale affettivo alla divinità che si può eccellentemente esprimere con la musica. Nella religiosità cattolica invece manca questo senso del dramma e dell’irrazionale. Gli italiani sono privi di senso tragico e direi che apprezzano poco la musica perché sono poco religiosi, se per “religione” si intende spiccare un balzo fuori della pelle, lasciarsi tentare dall’avventura che fa rabbrividire». Di parere assai diverso Fedele D’Amico che diceva invece: «La base del pubblico musicale è sempre stata fornita da persone capaci di praticare, in qualche modo, la musica; e queste per secoli sono state dappertutto molto poche. Perciò il pubblico è aumentato là dove e nella misura in cui la pratica musicale si è diffusa, culminando nell’istruzione musicale per tutti». La differenza è evidente. Per Cordero sono in ballo qualità nazionali e di stirpe; per D’Amico si tratta esclusivamente di una legislazione inadeguata. […]

Questa lunga premessa fa da sfondo alle domande centrali di ogni inchiesta che si voglia condurre sull’educazione e la cultura musicali degli italiani. Cifre, statistiche, diagrammi, servono a poco se ci si lasciano sfuggire da una parte i temi del dibattito culturale che il fenomeno della nostra ignoranza coinvolge; dall’altra i fatti minuti della cronaca quotidiana che quello stesso fenomeno confermano. Facciamo subito due esempi. Nel corso della discussione alla Camera sul «decretone» è accaduto che uno stenografo abbia trascritto Luigi Nono così: «Luigi ix», scambiando evidentemente il musicista veneziano con un re di Francia. Durante lo stesso dibattito il deputato del Manifesto Luigi Pintor si è a lungo intrattenuto sulle qualità musicali di Bandiera rossa che ha definito povere.

È vero: da un punto di vista melodico Bandiera rossa è bruttissima. Non ha niente a che vedere con la gagliarda forza trascinatrice di una Marsigliese o di una Internazionale. La monotonia di Bandiera rossa si rompe un po’ solo nell’ultimo versetto del ritornello dove si proclama «evviva il socialismo (o il comunismo, secondo le versioni) e la libertà» e dove in poco più di tre sillabe il motivo risolve sull’ottava superiore. Ma, ecco il punto, è anche lì che il coro, invariabilmente, si trasforma. Da coro diventa grido, urlo, versaccio. Dopo venticinque anni di esecuzioni pubbliche da parte di cortei, assemblee e congressi di ogni tipo, pochi hanno capito che per non trasformare il finale del popolare inno in un urlio strozzato è necessario attaccarlo più basso «quasi murmure indistinto». Non è un esempio da poco. Anzi il caso di Bandiera rossa illustra subito e fa quasi toccare con mano quella verità clamorosa che è il nostro analfabetismo musicale del quale, del resto, si possono raccogliere esempi insigni ad ogni livello sociale e sotto ogni regime politico. Durante il fascismo, quando i delegati nazionali dovevano eseguire insieme e col dovuto impeto guerresco gli inni della rivoluzione, si usava «imbottire» l’aula dell’assemblea con coristi di mestiere. Infatti solo quegli onesti professionisti incastrati sotto i gradini, tra le colonne, dietro i pannelli delle boiseries, erano in grado di assicurare al canto una tenuta decente per tutta l’esecuzione. […]

La lista degli esempi potrebbe continuare ovviamente. Quello che conta è però diverso: mettere subito in chiaro che voler definire ancora il nostro come «il paese del bel canto» (come del resto «il giardino d’Europa» o «la patria del diritto») è una pura ingenuità. Non solo questo non è il paese del bel canto, ma è, al contrario, il paese dove la musica è ignorata con tale indifferenza massiccia da destar meraviglia che sopravvivano dei musicisti, dei direttori di orchestra, degli esecutori, delle orchestre talvolta di ottimo livello. Se nel XVI secolo Baldassarre Castiglione poteva includere tra gli obblighi mondani della persona colta «l’esser musico», «l’intendere ed essere sicuro a libro» e il sapere «di vari strumenti», oggi sono diventate rare e preziose da noi perfino quelle signorine di buona famiglia in grado di eseguire al pianoforte tra mille incertezze e rossori un minuetto di Mozart.

[…] Per convincercene cominciamo a vedere qualche cifra. Il primo dato impressionante che si presenta è quello del consumo di dischi, che sono il mezzo più diffuso di fruizione musicale «volontaria» (cioè non obbligata dai programmi messi in onda alla radio o alla televisione e neanche dai repertori delle esecuzioni pubbliche). Tra i paesi europei l’Italia occupa, nella vendita dei dischi, il quarto posto dopo Inghilterra, Germania occidentale, Francia […]. Bisogna tener conto del fatto che mentre i dischi «singoli» sono convenzionalmente i supporti della musica leggera, i microsolco contengono in genere musica classica e più di rado musica leggera, jazz, folklore. In percentuale […] le preferenze discografiche degli italiani sono andate per il 90,7% alla musica leggera contro il 9,3% della musica classica; negli altri tre paesi europei ai quali amiamo confrontarci nei momenti di ottimismo, si hanno invece queste percentuali: Inghilterra 60,8% (musica leggera) contro 39,2%; Germania occidentale 62% contro 38%; Francia 72% contro 28%.

[…] C’è del resto un altro dato che si può aggiungere ai precedenti, la vendita in edicola che i dischi dei Fratelli Fabbri avrebbero raggiunto (secondo dati non ufficiali) con le loro collane a dispense: Storia della musica (80 mila copie settimanali); Grandi musicisti (120 mila copie); Musica moderna (25 mila copie). Ma a parte il loro peso numerico cosa significano queste cifre riferite all’educazione musicale? Qui i partiti sono nettamente divisi nella risposta. Da un lato gli ottimisti sostengono che qualunque strumento in grado di sottrarre all’ascolto abbrutito delle canzonette va accolto con esultanza e appoggiato. Dall’altro i più rigorosi dicono che ascoltare musica in dischi, cioè musica consegnata per sempre a una singola scelta interpretativa, serve a poco, anzi, al limite, può risultare dannoso.

C’è in questa posizione l’eco delle parole di Adorno che per primo aveva intravisto il pericolo della musica meccanizzata e la consapevolezza che il disco sopprime in parte quella ragione di fascino della musica che è l’interpretazione. Ascoltare una sinfonia di Beethoven sempre sullo stesso disco equivale a vedere Il giardino dei ciliegi di Čechov sempre nell’allestimento di Luchino Visconti. In ogni caso, da qualunque parte ci si schieri, è chiaro che l’ascolto dei dischi resta un compromesso, una fase di passaggio, simile a quella di un bambino che si faccia leggere storie dalla propria mamma in attesa di poter egli stesso prendere un libro tra le mani.

Ha scritto il musicologo Giorgio Pestelli: «La musica bisogna farla: l’infamata signorina di buona famiglia che “pianotait” la sinfonia del Barbiere a quattro mani, aveva pur sempre qualcosa da insegnare al moderno maniaco dell’alta fedeltà che non legge una nota e per il quale le musiche ascoltate hanno il volto delle copertine dei suoi dischi».

E allora: quanta musica fanno gli italiani? Il solo dato al quale ci si dovrebbe attenere per rispondere è la vendita degli strumenti musicali. Ma sono anche queste cifre difficili da mettere insieme perché non esistono statistiche ufficiali. Ne esistono invece per gli Stati Uniti d’America e confermano quello che tutti sanno: che gli Stati Uniti sono un paese preda di una sorta di frenesia musicale dove un americano su cinque suona o studia uno o più strumenti […]. Vediamo ora sulla base dei dati disponibili cosa succede in Italia. Nel 1966 si sono vendute da noi 20-25 mila chitarre, 2 mila e 500 organi elettronici da casa, 5 mila pianoforti per limitarsi agli strumenti più indicativi. Sono cifre striminzite che si riducono ancor di più per gli strumenti ad arco (violino, viola, violoncello, contrabbasso) che quasi nessuno studia più. […]

Lasciati da parte dischi e strumenti musicali vediamo ora quanti sono e come vivono gli enti che avrebbero il compito di diffondere alla base la cultura musicale, cioè le «società dei concerti». Per queste attività lo Stato stanzia ogni anno 700 milioni che devono dividersi tra le circa 200 «società dei concerti» esistenti nel paese. 200 istituzioni di questo tipo in un paese non grande sembrerebbero a prima vista sufficienti ad animare una decorosa vita musicale.
Invece non è così. Se si scorrono i dati ufficiali del 1969 subito si vede che anche questa attività è afflitta da mali diffusi. Ad esempio a Roma (dove ha sede il Ministero dello spettacolo) ci sono 24 associazioni musicali sovvenzionate con cifre che variano dai 36 milioni della benemerita Accademia filarmonica romana fino alle 500 mila lire del Centro romano giovani artisti lirici. Inoltre ci sono altre 12 società che finanziate non sono ma che ambirebbero ad esserlo. […]

La verità è che anche se s’include nell’analisi l’opera lirica, il quadro si movimenta ma non perde i suoi toni di mestizia. L’opera costa annualmente in pubblico denaro 20 miliardi di lire […].

Nonostante questo, ognuno degli 11 teatri lirici si adopera ogni anno a mettere in scena dieci, quindici allestimenti nuovi che finiranno in magazzino dopo le poche repliche previste […]. Ma la situazione complessiva di disagio della cultura musicale degli italiani, ha un punto di partenza preciso: i conservatori. Su questo argomento Andrea Mascagni – che insegna composizione al conservatorio di Bolzano – ha svolto per la Nuova rivista musicale una inchiesta molto vasta. Dai dati raccolti si capisce che gli allievi di conservatorio sono considerati, all’interno del nostro ordinamento scolastico, poco meno che degli stravaganti ai quali vanno riservate nelle relazioni ufficiali poche frasi distratte. […] In trent’anni gli allievi di conservatorio sono rimasti più o meno gli stessi. Non solo. Il numero degli iscritti non è neanche un dato attendibile dal momento che, come anche scrive Mascagni, «si può valutare che non più del 50% (forse meno) di coloro che si iscrivono a una scuola musicale di tipo professionale giunga alla conclusione degli studi». […] Il difetto è alla base, dicono gli esperti: i nostri conservatori sono organizzati per diplomare nel migliore dei casi dei «virtuosi», non dei musicisti né tanto meno dei musicologi, insegnamento che esiste, in via semi-sperimentale, solo a Bologna e da poco tempo. Ha detto Riccardo Allorto: «Il conservatorio è il centro più nefasto della vita musicale italiana. II diploma di pianoforte non serve né a fare il concertista né a insegnare il pianoforte. In pratica non serve a niente». Anche Mascagni è dello stesso parere: «Il piano al conservatorio serve solo a preparare l’esame, cioè a imparare a memoria un certo numero di brani. Non è uno strumento per “leggere”, per improvvisare, per conoscere […]». Ma a questo punto viene fuori una considerazione di fondo propugnata in modo particolare da Fedele D’Amico: «Riformare i conservatori senza riformare tutto l’insegnamento musicale significa fare un buco nell’acqua. Perché? Perché nei paesi in cui la musica s’insegna sul serio nelle scuole, al conservatorio ci vanno quelli che hanno già saggiato la propria vocazione e infatti gli esami d’ammissione sono difficilissimi. […] Cosa sa fare invece uno dei nostri diplomati?». La risposta l’ha data il musicista Carlo Frajese che insegna musica da camera a Perugia: «Non sa fare niente. Non sa suggerire, non sa accompagnare la danza, non sa insegnare musica, non sa dirigere un’orchestra, non sa mettere insieme una compagnia di canto, non sa fare la colonna sonora di un film, non sa scrivere quattro battute di jazz e non solo non conosce il jazz ma non sa neanche come si lavora in teatro, per il cinema, in una moviola, in una sala di prove. Sono i risultati di un sistema educativo che non prevede per tutta la durata dei corsi l’analisi di un solo testo lirico o sinfonico, ma solo l’applicazione ripetitiva per mesi interi allo stesso brano».

[…] Alla riforma dei conservatori sono stati dedicati numerosi convegni, relazioni e incontri; anche se non hanno raggiunto finora alcun risultato pratico queste manifestazioni sono servite in compenso a chiarire le idee di coloro che vi hanno partecipato. Tra i progetti presentati riscuote i maggiori consensi quello fatto proprio dal «sindacato musicisti italiani» e presentato anche come proposta di legge alla Camera. I due concetti principali sui quali si articola sono quello dell’insegnamento della musica in tutte le scuole (dalle elementari all’università) e quello della riforma totale delle scuole di musica.

Tutto male dunque? Quasi tutto. […] Non c’è tempo da perdere. Ha scritto di recente Arturo Carlo Jemolo che il nostro tempo è caratterizzato più che altro dalla pigrizia; tra tutte le espressioni artistiche la musica è quella più danneggiata da una dote negativa di questo genere. Un gruppo di giovanotti può mettere insieme una compagnia teatrale anche senza aver mai visto l’accademia di recitazione o fare un film o tentare una scultura collettiva senza aver frequentato le rispettive scuole. Ma nessun giovanotto potrà mai neanche intonare una scala di «la maggiore» se non sa che tre note devono essere diesizzate. Nella musica la frequenza amorosa con i modelli correnti serve a poco. È facile che essendo familiari con Bach si finisca per apprezzare anche i Beatles; è quasi impossibile il contrario. Per questo approvare l’insegnamento della musica in tutte le scuole sarebbe quasi la sola cosa da fare.