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Gente alla Fiera

In Fiera – io che cerco d’essere milanese – ci sono andato solo due volte in vita mia. La seconda l’anno scorso, perché mi sembrava inconcepibile che un cittadino da poco iscritto all’anagrafe del comune non dedicasse un paio di pomeriggi alla Fiera; e anche per la legittima curiosità di vedere quanto diversa fosse dalla prima volta che l’avevo veduta, nel 1946, primo anno di pace.

M’ero trovato a Milano per tutt’altro, era di settembre: e la Fiera s’inaugurò una domenica mattina che stava per piovere, o era appena piovuto, verso le 9: casalingo e soddisfatto, davanti a una piccola folla, De Nicola pronunciò il discorso. Poi la visita frettolosa, con gli operai che ancora martellavano nei padiglioni, il grigio che dominava su ogni altro colore, e l’odore di vernice come alla vernice d’una mostra di pittura.

L’anno passato, invece, fu ben diverso: ma mi accorgo ora di averla visitata in altro modo da come avrei voluto: fa parte, ne sono sicuro, delle virtù civiche visitare bene la Fiera. Eppure anche di un’altra cosa sono sicuro: che non riavrò la stessa occasione dell’anno scorso, inurbato di fresco, un po’ spaesato com’ero.

Qual è la peggior tentazione dell’inurbato? Cercare di non apparirlo, evitare i luoghi comuni che denunciano immancabilmente un comportamento da provinciale. I cronisti di «bianca» dei quotidiani indulgono spesso al luogo comune di denunciare questi luoghi comuni a spese d’innocenti, indifesi bersagli: a Roma, pellegrini e turisti; a Milano, ahimè, visitatori della Fiera. E non è bene, direi, è poco caritatevole, è ingrato: perché, se non fosse per queste persone, anche il solido mito di Milano rischierebbe di ridursi a una polemica di ore di punta sui tram, divieti di transito, tronchi di metropolitana. Invece, grazie ai visitatori della Fiera, dico specialmente quelli che vengono in comitiva sui pullman, con treni speciali e biglietti d’andata e ritorno, di Milano si parla per mesi e per anni nelle serate della più remota provincia; c’è ancora gente così limpida e fresca da ricordare per decenni lo spettacolo d’un giorno.

La retorica dei cronisti di «bianca» (a parte gli inni alla produzione che contano poco o niente: è la produzione che conta) mortifica, in fondo, l’entusiasmo di questi visitatori: si parla dei collezionisti di stampe propagandistiche, di brodi omaggio, di pastiglie e microdentifrici, con sufficienza non giusta. Io penso che senza questi benemeriti anche la Fiera come Fiera sarebbe assai meno importante di quello che è, non giustificherebbe il giusto orgoglio di cui si circonda: senza contare, poi, che molti di questi collezionisti, i più spregiudicati, i più organizzati, sono milanesi autentici o, se non proprio autentici, almeno residenti, al di sotto dei 40 e al di sopra dei 60 anni di età.

È vero, la Fiera è un grande mercato: ma, se in un mercato ci fossero soltanto i compratori e i venditori, che mercato sarebbe? Figurarsi una Fiera visitata soltanto da compratori, veri compratori, quelli che corrono difilati al padiglione che li interessa, trovano la gente della ditta tale, scambiano due parole di convenevoli fra conoscenti, prendono l’aperitivo o il caffè, danno un’occhiata e dettano l’ordine per il prodotto di cui quasi certamente hanno già sentito parlare: sarebbe una Fiera senza tramezzini, senza curiosità meccaniche e invenzioni utili, senza darsena, senza ville prefabbricate, senza pedane tonificanti previa immissione di 50 lire, senza quartiere orientale, senza ragazze.

Gli espositori se la caverebbero con meno, non avrebbero bisogno di studiare allestimenti nuovi, di mobilitare architetti e falegnami, di ingigantire le scritte. La forza di un mercato, la sua forza d’appello, di richiamo, viene proprio da quelli che non comprano (o che comprano poco, una cosetta o due, dopo lunghe meditazioni, persuasi tuttavia del buon affare).L’ultima Fiera che ho vista, la Fiera dell’anno scorso, prova generale per me della terza visita che ora m’appresto a compiere, non l’ho visitata il giorno della inaugurazione. Anzi ho aspettato, fedele al luogo comune (comune, ma abbastanza vero) del milanese che avverte l’amico di Montevarchi: «Inutile venire i primi giorni, c’è pieno di gente, è meglio aspettare, gli stands sono ancora mezzo per aria, eccetera»: così finisce che dopo sette-otto giorni in Fiera non si può circolare dalla gente che c’è, tutta gente che ha seguito l’esperto consiglio dell’amico.

Ho aspettato, eppure non mi è mancato lo spettacolo audiovisivo di qualche angolo di padiglione ravvivato da carpentieri in tuta e da allegri colpi di martello: anche a quarantott’ore dalla chiusura, c’è da giurarlo, non manca un angolo in cui si ribattono gli ultimi chiodi per l’assetto definitivo.

Fa parte del colore: c’è una misteriosa, spontanea regia che compie quotidiane assegnazioni dei chiodi ancora da inchiodare, delle viti ancora da avvitare al momento della inaugurazione, quando si deve fare silenzio per ascoltare il discorso del Presidente. Ancora duemila chiodi? Bene, un po’ per giorno: così ogni giorno di Fiera avrà la sua giusta dose di colpi di martello e di carpentieri accorrenti.

Ma parliamo un po’ della gente. La primavera è già esplosa: anche se la tradizione vuole piovosa e grigia la giornata inaugurale, pure non è possibile che i sedici giorni di Fiera passino senza sole.

Ed è in una delle belle giornate, all’ora sonnolenta del primo pomeriggio, che bisogna seguire i visitatori che non comprano da un padiglione all’altro: magari anche tra mezzogiorno e le 2 nella zona dei ristoranti e delle tavole calde, durante la sosta che i più metodici e volitivi (abitano fuori Milano, sono arrivati al mattino di buon’ora) si concedono a metà della sfacchinata.

Non so se di proposito o per caso ho imbroccato l’anno scorso le ore e le giornate di miglior tempo e di maggiore folla; non sono un uomo d’affari e ho pertanto evitato (anche se il regolamento avrebbe potuto concedermi un’eccezione) le ore riservate ai soli operatori economici. Ore portanti, ore fondamentali, ore che danno corpo al giusto orgoglio dei consuntivi e delle cifre d’affari: ma probabilmente meno ricche e cospicue dall’immediato punto di vista umano.

Seduti su gradini e a tavoli di bar, dove capita e dove le disponibilità consigliano, dove c’è un po’ d’ombra e una modesta corrente d’aria: anche la capace mandibola d’una benna può farsi accogliente come la poltrona d’un salotto per l’esile, bionda, occhialuta ragazza alle prese con l’ora del tempo, la dolce stagione e il gelato da passeggio. Si può essere certi che la ragazza non comprerà mai la grande macchina: eppure quanto le serve in questo momento la benna dalla bocca spalancata!

Non so se di proposito o per caso ho imbroccato l’anno scorso le ore e le giornate di miglior tempo e di maggiore folla; non sono un uomo d’affari e ho pertanto evitato (anche se il regolamento avrebbe potuto concedermi un’eccezione) le ore riservate ai soli operatori economici. Ore portanti, ore fondamentali, ore che danno corpo al giusto orgoglio dei consuntivi e delle cifre d’affari: ma probabilmente meno ricche e cospicue dall’immediato punto di vista umano.

Parlavo della ragazza in bocca alla benne; ma è un piccolo, minuscolo episodio fra i tanti della gente comune che si accosta soprattutto alle cose che non comprerà mai: uno stuolo di seminaristi in scrupoloso pellegrinaggio al padiglione edilizio, un anziano signore con basco e barba candida a spazzola (forse svizzero, forse da sempre colonnello o professore a riposo) che esige minuziose notizie sugli ultimi apparecchi di precisione. La consorte, che l’accompagna, guarda con affabile distacco.

Hanno il piacere dell’impossibile. «Quanto costa questa macchina?» È un congegno gigantesco, potrebbe, per quanto li riguarda, essere anche una montagna russa, non sanno esattamente a che cosa possa servire. «Duecento milioni.» Annuiscono con rispettosa, meravigliata approvazione: e magari accanto al visitatore più ciarliero c’è il più timido che, carpendo l’informazione, partecipa sulla scia della stessa annuente meraviglia.

È un pubblico da sagra, ricco di bambini e di fidanzati. Se ci fosse una pista da ballo con orchestra all’aperto sicuramente farebbe affari. Come dice quel verso famoso? April is the cruellest month… il mese più crudele: ma di una crudeltà davvero assai dolce, come l’aria ronzante del primo pomeriggio quando la Fiera segna il passo, gli addetti spazzano via da terra manifestini e sacchetti di carta, e le ragazze un po’ affrante da tanto camminare reclinano la testa sulla spalla del fidanzato distolto per l’intera mattinata dalle novità del padiglione meccanico, e adesso anche lui soggiogato dal torpore di questa primavera. Casalinghe in gita collettiva si raccolgono a commentare: «Madonna, quanta gente!» e a discutere sull’ora della partenza. Non tutte sono d’accordo. «Non abbiamo visto niente, facciamo ancora un giro»: qualche comitiva entra in crisi, qualche scissione si minaccia.

I ragazzini scappano alle madri per rincorrere l’amico più svelto che è riuscito ad accaparrarsi un difficile omaggio, qualche madre si abbandona all’ombra («Vedremo quando si sbriga quello là») e coglie l’occasione non gradita di sperimentare il campione pubblicitario del nuovo calmante. Il giovane intraprendente, deciso anche a perdere il treno del ritorno, tenta il colpo con una bionda al banco della birra, le rivolge una, due domande perfettamente ovvie, tanto per provare, non si sa mai: ma gli basta per la fanfaronata del giorno dopo quando ritroverà gli amici che qui, da un momento all’altro, ha perduto di vista: essi, d’altro canto, racconteranno a lui altre storie, tutte che si somigliano.

Alla fine i piedi fanno male, le scarpe sono grigie di polvere: ma se non fosse, così non sarebbe una Fiera, non sarebbe la Fiera. Alla fine la stanchezza della giornata è una stanchezza da giornate eccezionali, da viaggio di nozze: lo smaliziato che riesce a non stancarsi perde certamente qualche cosa. La stessa cosa che perde colui che non va a caccia di stampati, di sacchetti di carta, di campioni omaggio, che non domanda il prezzo di ciò che non comprerà mai, che non partecipa d’un assaggio gratuito di frittelle o tartine preparate in trenta secondi con la nuova speciale macchinetta, che non compra poi almeno un paio di oggetti non perfettamente necessari.

Uno stupido rispetto umano mi ha impedito l’anno scorso di fare tutte queste cose. Invece mi accorgo che avrei potuto divertirmi anche di più e che non avrei mancato di rispetto a nessuno chiedendo il prezzo d’una scavatrice o d’un aeroplano, né sofferto in alcuna dignità seguendo il malrepresso desiderio di assaggiar vini, raccogliere opuscoli e manifestini, addormentarmi su una panchina coprendomi la faccia col giornale, farmi scarrozzare da una di quelle automobiline del servizio interno, abbandonarmi – tanto nessuno se ne accorge – all’occasione di un infantile ritorno.

Ho detto che quest’anno farò meglio: ma forse in ben altro senso, sempre più razionale, sempre più distante da tutte quelle cose che sempre più desidero e che sempre meno riuscirò a fare. Riesce a farle, a goderle, chi non ci ricama tanto come io ci ricamo, e anche per questo forse il mondo va avanti e resiste.