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Arrigo Castellani

Scomparso nel dicembre scorso, fu per diciotto anni a capo della Direzione Stampa e Pubblicità della Pirelli. Della sua infaticabile attività sono ricordati qui, sulla rivista che diresse per dodici anni, i momenti più significativi, attraverso le testimonianze di collaboratori e amici. […]

 

In quale clinica è Don Arrigo? / Enzo Ferrari

Eravamo nell’autunno del ’51. Un sabato mattina l’amico Lombardini mi telefonò. «Troviamoci domani in quella osteria di Fidenza» mi propose. «Desidero presentarti il nuovo collaboratore incaricato della propaganda e della pubblicità.»

Era una nostra consuetudine, quella degli incontri a mezza strada tra Modena e Milano, e lunghi erano i «giri d’orizzonte» e le discussioni tecniche.

Così incontrai Arrigo Castellani, che succedeva a Roda, Bernasconi, Perego e tanti altri nell’attività che pure da Lombardini prendeva direttive. Romano, vivacissimo, bruno olivastro, due occhi quasi costantemente spauriti. Così ricordo il dottor Arrigo, quel giorno che ebbe inizio la nostra amicizia. E subito furono discorsi a non finire sulla utilità delle corse, tesi contrastanti sulla validità della pubblicità tecnica; lo avvertii subito prevenuto alla mia fede e da allora, attraverso discussioni e corrispondenze, continuammo ad alimentare un amichevole dissidio che il tempo avrebbe poi giustiziato.

Sciatore, per due volte lo ritrovai in casa di cura in riparazione. Automobilista «assente», ne subì le conseguenze tanto che ogniqualvolta incontravo un amico della Pirelli chiedevo di lui con una battuta: «In quale clinica è ora Don Arrigo?».

Il suo lavoro presto prese corpo: il tono della pubblicità si elevava con innovazioni che colpivano, con pubblicazioni che si facevano via via più interessanti. La Rivista Pirelli, «Vado e Torno», altre ancora. Un giorno mi fece sapere: «Vengo a trovarla con un mio superiore». Così disse, semplicemente. E arrivò a Maranello con l’ingegnere Leopoldo Pirelli che fino allora conoscevo soltanto per quello che di lui Lombardini mi aveva detto da molti anni. I nostri contrasti non affievolirono la reciproca simpatia, anzi attraverso questi avevamo imparato a stimarci.

Ricordo un suo passaggio da Maranello con una colazione «confessionale» in un ristorante verso l’Abetone dove, appeso a una parete, troneggiava un vecchio specchio incorniciato con oleografie che potevano avere sessanta o settant’anni di età. Lo notò e mi confidò: «Quelle sono le cose che mi piacciono tanto e tanto mi dicono».
Pochi giorni dopo acquistai quel pezzo e glielo inviai. Con lettera espresso mi ringraziò ma aggiunse che l’avrebbe trattenuto solo rimettendomi il relativo importo. Al che ribattei secco che l’avevo pagato 16 mila lire alle quali poteva aggiungere le spese di imballo e di trasporto. L’ultimo ricordo è recente. È il 7 settembre 1968 e io sono ai box di Monza per assistere alle prove che la nostra squadra sta facendo per il Gran Premio d’Italia.

Mi viene incontro col suo ampio sorriso, mi presenta un giovane che – dice – gli hanno messo a fianco per prepararlo. Io lo aggredisco: «Alla Pirelli sono sempre previdenti!». Mi abbraccia: «Lei è sempre quello!». Questi erano i nostri rapporti. Cosa potrei aggiungere? Don Arrigo, come io lo chiamavo, è stato un esecutore rigido e convinto. Nel suo lavoro ha profuso tanto estro quanto ha incontrato di avversità; leale nelle sue ostilità, imprevedibile nelle sue reazioni altrettanto come forse io lo sono; non esistevano per lui amori tiepidi. Una venatura di mestizia traspariva costante dall’esuberante sorriso e da quel suo sguardo. Perché? Mai lo seppi, anche se spesso me lo sono chiesto. Ci ha lasciato, imprevedibilmente come egli fu nelle sue affettuose amicizie e come io lo ricorderò.

 

Diverso: difficile e facile / Giovanni Pirelli

Arrigo Castellani è morto prima di essere divenuto un vecchio. Non sto a dire che sia una sorte invidiabile. Dico, pensando ad Arrigo, che la sua vita è stata interrotta in un punto oltre il quale avrebbe subìto un trauma, comune, sì, a molti, ma in lui assai rilevante. Se è vero che in ciascuno di noi è la maturità che progetta la vecchiaia, che in una certa misura la maturità già contiene la vecchiaia, mi pare che la maturità di Arrigo sia stata, sotto questo aspetto, inadeguata.
Direi di più, direi che è stata ed è rimasta sino alla fine ambigua, non mai assimilata. Così come lo vedo, egli non è mai stato compitamente ciò che le sue varie esperienze, la funzione aziendale, il ruolo sociale avrebbero dovuto fare di lui. Non si è mai lasciato istituzionalizzare in modo completo. Ha sempre portato, nel reggere un complesso compito direzionale, nelle manifestazioni della vita associata, nel suo modo di esprimersi, negli stessi atteggiamenti del volto, i segni – le riflessioni, gli slanci – di un volontarismo giovanile; quasi che reclamasse a propria difesa e giustificazione l’alibi di una sua definizione non ancora avvenuta; quasi che gli fosse stata garantita la possibilità di ridefinire la propria esistenza – eppure così inverata in un ruolo, immessa in una sequela senza fine di sensi unici, così saldamente inserita in un reticolo di rapporti convenzionali –, di retrocedere per prendere slancio e ripartire in una prospettiva mutata. È questo solo un risvolto della sua personalità, un aspetto marginale?

Può darsi. Ma è quello che faceva di lui, a mio giudizio, nel contesto nel quale operava, un uomo diverso; come un quadro appeso un po’ di sbieco in una galleria di quadri, di ritratti che si presentano tutti bene allineati.
Diverso: difficile e facile di giorno in giorno, da occasione a occasione, talvolta perentorio, prevaricante, talvolta duttile, problematico, addirittura indifeso, talvolta irritante, altre volte avvincente.
Il rapporto di lavoro con lui – parlo di parecchi anni di collaborazione nella redazione della Rivista Pirelli – è sempre stato a sorpresa; un rapporto da reinventare continuamente senza avere alle spalle nulla di stabilmente acquisito.
Avrebbe potuto essere insopportabile ed invece, nel prolungarsi del rapporto, riusciva via via più simpatico. Ed aveva un dono oggigiorno sempre più raro, specialmente a Milano: sapeva essere allegro, sapeva essere malinconico. Non grigio, non noioso; malinconico.
Se per ogni personaggio esiste una chiave d’interpretazione, per Arrigo Castellani adotterei la seguente: ha conservato attraverso tutta la vita il gusto per la vita. Quand’anche non fosse la chiave, questa non è, non può essere un’annotazione marginale.

Se dietro uno scrittoio, nei pranzi di lavoro, nei viaggi di affari, se nei rapporti col prossimo – tutti o quasi tutti legati a una funzione e ad essa condizionati – l’uomo aziendale riesce a tener desto il gusto del vivere, ad assaporare il sale della vita, ebbene, non è cosa da poco. Penso, per tornare al punto da cui sono partito, che Arrigo avrebbe avuto una vecchiaia difficile. Non era individuo da accettare serenamente o bonariamente la regressione, la rinuncia all’alternativa – anche se solo ipotizzata –, la scomparsa dell’imprevedibile, l’insieme delle norme che rispondono a quest’unica ed ultima norma: vivere male per sopravvivere a lungo.