Enzo Ferrari ha dato alle macchine da corsa il proprio nome e carattere: prima di costruirle le ha pilotate. Ha vinto in ogni paese, su ogni strada
È fra i nomi italiani uno dei più conosciuti nel mondo. Senza articolo è lui, Ferrari. «Ferrari mi ha detto, ho visto Ferrari, credo che Ferrari risponderà…» È una forma confidenziale che si usa, lontano da lui, grazie alla sua enorme popolarità. Da vicino, di persona, diventa «il commendatore». Sono pochi coloro che gli si rivolgono semplicemente così: «Senta, Ferrari». Con l’articolo femminile al singolare, la Ferrari, è la macchina che corre e vince in quel momento o la fabbrica che, per talune caratteristiche, è unica al mondo. Con l’articolo femminile al plurale, le Ferrari, è sinonimo di rivoluzione nell’automobilismo; indica una catena di affermazioni che pochi possono elencare compiutamente tanto grande è il numero e quasi senza limiti l’ubiquità; si identifica in una ansia di rinnovamento e di perfezione che non ha avuto soste e non ne potrà conoscere: le Ferrari sono così, perché così è lui, Ferrari.
Ha una personalità complessa, difficile da afferrare. […] Gli attribuiscono astuzie sottili, riserve mentali quasi diaboliche e un machiavellismo moderno. Nega in blocco queste affermazioni: «Non vado al cinema, non mi reco a teatro, non frequento i caffè, non conosco villeggiature e riposi. Ma non intendo rinunciare a un mio lusso costosissimo e pericoloso: quello di dire sempre, in una forma che rasenta la brutalità, quello che penso». […]
Ha i capelli brizzolati, benché gli anni siano relativamente pochi: 56 appena. Nato a Modena nel ’98, è figlio di un carpigiano e di una forlivese. C’è da meravigliarsi – chiede – se io sia un tantino rivoltoso? Gli studi si arrestano sulla soglia insormontabile della terza tecnica. Una bocciatura, due bocciature: i regolamenti di allora non offrivano vie di scampo: chi è somaro a scuola non avrà fortuna nella vita, gli disse il maestro. E infatti… Lavora nel ’18 a Torino, in un garage di via Ormea; passa nel ’19 a Milano e gli riesce di metter le mani su un volante e di correre alla Parma-Poggio di Berceto e alla Targa Florio. L’anno dopo entra all’Alfa come corridore e vi resta per vent’anni. Nelle officine del Portello si forma, si squadra, si irrobustisce la personalità di questo formidabile e irriducibile lottatore. Le ultime battute di questo periodo fondamentale della sua vita sono secche, dure, risolute: «Lei mi paga molto bene, ma io non le ho venduto la mia testa. Voglio continuare a ragionare con quella. Mi licenzio». E se ne va, dopo vent’anni. Il suo posto definitivo nel mondo se lo è conquistato in seguito solo contro tutti, con l’ingegno, con la forza di carattere, con l’esperienza, triste privilegio dell’età per chi ha buona memoria.
Quest’uomo ha indubbiamente delle molle dentro di sé, che lo sospingono, che non gli danno tregua. E quali sono? L’egoismo e l’ansia creativa. «Io sono un egoista – dice Ferrari – e non lo nascondo. Hanno detto e scritto di me molte cose. Ma tutto quello che ho fatto si ricollega con soddisfacimento del mio egoismo. Mi sono ripetutamente interrogato, per essere certo che ciò non fosse di danno a chi mi circondava. Quando mi sono reso conto che la mia attività procurava benessere a coloro che con me dividevano ansie, fatiche e rischi, ho avuto la più ampia giustificazione al mio egoismo. Se poi ripenso alla gioia esaltante che le vittorie delle mie macchine hanno dato agli italiani sparsi nel mondo, a coloro che per necessità di vita sono stati costretti a scegliersi una seconda patria, allora non solo mi sono giustificato, ma ho sentito che ero ripagato ad usura di tutti i dispiaceri, di tutte le amarezze, di tutte le avversità.»
[…] Prima di tutto ha agito per dare un piacere a se stesso, per soddisfare la sua ansia creativa. Poi ha voluto dare il benessere e la tranquillità ai collaboratori. Infine ha riscaldato i cuori degli italiani sparsi nel mondo. […]
Prima di tutto Ferrari è stato un pilota. All’inizio il correre fu per lui pura gioia, pieno divertimento. Quando questo divertimento si trasformò in preoccupazione abbandonò il campo e cercò sfogo alla sua passione nel costruire l’automobile da corsa. «Io sono un artigiano che insegue un ideale: poter lavorare tutto l’anno in serenità, senza preoccupazioni, per costruire una quindicina di macchine da corsa con le quali vincere quasi tutte le prove.» Poiché questo non lo può fare accetta i clienti come una necessità: c’è un intero paese che vive della Ferrari e per la Ferrari. Duecentosettantasette collaboratori vogliono dire duecentosettantasette famiglie, significano una responsabilità sociale che può togliere il sonno assai più di una sconfitta o di un motore non del tutto soddisfacente.
Quando Ferrari parla dell’automobile da corsa, ha inflessioni di voce di particolare dolcezza. «Nelle famiglie numerose – dice – non vi sono forse i figli bravi e laboriosi e il figlio degenere che abbandonerà le strade della rettitudine e dell’onestà? Così avviene per i motori. In numero di quattro o cinque vengono costruiti nello stesso periodo di tempo con materiale identico su disegni assolutamente uguali, con modalità e accorgimenti che si ripetono senza la più piccola variazione. Un motore darà un numero altissimo di cavalli ed avrà una voce chiara, sicura, tenorile. Un altro motore sarà muto, lo si potrà esaminare e revisionare in mille modi: non darà mai il rendimento dell’altro. Perché questo? Hanno un’anima? Arriverei a dire di sì, visto che hanno una voce…»
Ferrari trova la giustificazione alla sua nota avversione per presenziare alle gare. Quando il suo orecchio sensibile percepisce i primi sintomi di stanchezza, quando intuisce che la macchina ha una malattia che ne mina e pregiudica l’organismo, prova una acuta sofferenza che preferisce risparmiare a se stesso.
E se ne sta lontano nella sua piccola casa modenese, nel silenzio del suo studio davanti ad un telefono che di tanto in tanto suonerà per portargli notizie.
Dalla macchina Ferrari passa a parlare dell’uomo che la guida. Fabbricare un corridore da Gran Premio costa molto di più che fabbricare una vettura da corsa. «Corridori – afferma Ferrari – si diventa per superallenamento e per discrete capacità; oppure per intuizioni specialissime, per predisposizioni particolari e per ragionato coraggio.
Gli uni e gli altri debbono ad un certo momento assumersi dei rischi, pur contenendoli nell’ambito di quelli strettamente necessari: per stabilire quali sono i rischi necessari occorre uscire di strada molte volte e mettere fuori uso molte macchine. Traduciamo tutto in lire: ci vogliono milioni, molti milioni. In Italia può darsi che vi siano oggi dieci aspiranti qualificati al titolo di campione mondiale.
Ma per arrivarci, dovrebbero avere i mezzi materiali. Chi li ha non ha tempo di correre; chi ha tempo non ha i mezzi.
L’Automobile Club Argentino, a questo riguardo, ha insegnato molte cose: prima ha acquistato in Italia le macchine da affidare ai suoi piloti.
Oggi, noi europei, ci contendiamo i piloti argentini e ad essi offriamo i nostri mezzi. C’è il progetto di costruire in poco tempo a Monza una pista simile a quella di Indianapolis, così da arrivare ad uno scambio di uomini e di macchine fra Italia e Stati Uniti. Ma le macchine e gli uomini, da noi, chi penserà a costruirli?»
Enzo Ferrari è uno dei pochi uomini – si potrebbe dire – che è riuscito a conseguire e realizzare il sogno della sua vita. Fin da ragazzo le macchine da corsa sono state la sua passione. Prima le ha pilotate, poi le ha costruite. Con le sue macchine ha vinto in ogni paese, su ogni strada in tutte le piste. Soltanto Indianapolis resiste. Ma fino a quando?
Si è creata in questi anni l’idea del Ferrari polemico, del Ferrari facile all’ira, del Ferrari insofferente. Ed è divenuta di dominio pubblico, forse perché non è stata approfondita l’analisi di questo temperamento vivo, restìo agli insabbiamenti.
Ferrari si arrabbia con facilità, ma i grossi problemi, le grandi battaglie, le polemiche impegnative lo trovano calmo, freddo al massimo. Due stati d’animo – afferma – mi sono sconosciuti: l’invidia e il rancore. E dopo un momento, con un mezzo sorriso, butta là la battuta che più maliziosa di così non potrebbe essere: «Da quando ho letto di un certo Pisciotta, caffè non ne bevo più…».
Autodidatta nelle questioni tecniche, Ferrari s’è fatto da sé anche nelle discipline umanistiche che ama, che coltiva, che approfondisce. Chi è stato ai raduni modenesi e bresciani ha sempre gustato i suoi discorsi, misurati, commossi, sferzanti quando occorreva.
Il Ferrari scrittore ha una sua personalità, uno stile, un epistolario voluminoso alle spalle. «Rispondo a tutti – precisa – e non mi costa fatica. Mi pare che una lettera, da chiunque essa provenga, non può restare senza risposta. Vorrei però saper scrivere certe lettere, con lo stile corrosivo di un Malaparte. Oh, se lo vorrei, saper definire certe situazioni…»
Dice così, nei momenti di risentimento quando sa di essere vittima di un torto che provoca in lui reazione immediata. Ma se si sfoglia il suo abbondante carteggio di corrispondenza, cade sott’occhio questa lettera del 3 maggio 1954, diretta in corso Sempione 60, a Milano, che dice: «Caro Alberto, fra tanto compiacimento per la tua bella, intelligente vittoria nella xxi ambita Mille Miglia, desidero anch’io esserti vicino.
Anche se le circostanze della vita ci hanno divisi, tu hai la certezza della sopravvivenza della nostra amicizia, le cui origini trascendono da ogni considerazione contingente. E che tu abbia vinto con una macchina italiana ciò compensa la mia intuitiva amarezza. Con i migliori saluti per te e tutti i tuoi cari, tuo Enzo Ferrari».
Nell’agosto ’52, dopo la prima conquista del titolo di campione del mondo, aveva scritto quest’altra lettera: «Cari amici dell’Alfa, permettetemi di incominciare così questa lettera che vi scrivo dopo tanti anni. Il vostro telegramma di oggi mi ha portato una grande ventata di primavera e nel cielo terso ho letto, con chiarezza sconcertante, l’intero libro dei nostri ricordi. Venti anni ho vissuto con voi: quanti fatti, avvenimenti, uomini sono passati. Tutto e tutti oggi ho ricordato. Ho ancora per la nostra Alfa, siatene certi, l’adolescente tenerezza del primo amore, l’affetto immacolato per la Mamma! Credetemi vostro Enzo Ferrari».
Questo è l’uomo. Conosciuto in tutto il mondo, amico di re e di principi, di capitani d’industria e di uomini di lettere, ha certo i suoi difetti ma ad essi contrappone una serie di realizzazioni che forse non hanno l’uguale nella storia contemporanea del nostro sport e del nostro automobilismo. […]