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Jerry Lewis ultimo buffo

Perché bisogna occuparsi di Jerry Lewis? I motivi sono diversi. La decadenza del cinema comico, intanto. Persino gli attori scarseggiano: Peter Sellers in Inghilterra; Sordi, Tognazzi, Manfredi, la Valeri e l’«oriundo» Gassman in Italia; ma già in Francia dobbiamo scendere al livello di Funès, Bourvil, Blanche, Darry Cowl, e Hollywood vive ormai soltanto di sagacissimi caratteristi (è un vivaio inesauribile) e di Jack Lemmon. […] Anche gli autori mancano. Non parliamo di casa nostra, per carità di patria. Il motto della «commedia all’italiana» è una parafrasi della nota boutade di Buster Keaton: perché essere volgari quando, con un piccolo sforzo, potete diventare scurrili? La coprolalia è la sua regola, ed è inutile spiegare quale sia la sua ossessione, anzi «l’idea fissa». Abbiamo i comici e qualche sceneggiatore, ma gli uni e gli altri lavorano troppo. Non abbiamo registi-autori, salvo Marco Ferreri (L’ape regina, La donna scimmia), ma con lui non siamo più nel cinema comico: nel grottesco, nell’umore «negro».

In Francia c’è soltanto Jacques Tati, ma la rarità dei suoi impegni creativi sfiora la sterilità: Playtime, di imminente uscita, dopo quasi un decennio di silenzio, dirà se ha ancora qualcosa da dirci. Come il defunto Preston Sturges, uomo di talento, Howard Hawks e Billy Wilder appartengono alla categoria dei «falchi» della satira cinematografica, pur essendo il primo incline a un’obliqua accettazione, il secondo a una critica virulenta dei costumi sociali americani. Entrambi, però, sono vecchi, ormai disposti a una visione più distaccata, e perciò più serena, della vita. Non hanno più tempo di indignarsi.

Alla categoria delle «colombe» si iscrive, come Richard Quine e Blake Edwards, Frank Tashlin che, con uno stile derivato da quello dei disegni animati, dove fece il suo apprendistato, ha spesso raggiunto il punto di fusione tra la sex comedy sofisticata e la frenesia dello slapstick. Anche egli è, però, in parabola discendente: non gli ha giovato il passaggio da Jerry Lewis a Doris Day, accanitamente decisa a prolungare la sua seconda giovinezza di attrice. La comicità di Tashlin affonda le radici negli strati più tipici del mondo nordamericano: la tecnologia (Sherlocko… investigatore sciocco), i fumetti (Artisti e modelle), il cinema (Hollywood o morte!), la musica leggera (Gangster cerca moglie), la pubblicità (La bionda esplosiva), ma la sua irriverenza verso i «mass media» e la «civiltà delle macchine» è tutto tranne che satira, assomiglia a un omaggio più che a una critica. Non ha bisogno di deformare o di esagerare gli aspetti tecnologici o fumettistici della società; gli basta rappresentarli come sono per renderli divertenti. Pur mettendoli in burletta, li accetta e li ama perché fanno parte del suo tempo.

Perciò dobbiamo occuparci di Jerry Lewis, il James Dean del comico, l’unico buffo cinematografico in servizio attivo che abbia ingegno, idee e una visione del mondo. La sua carriera si può dividere in tre fasi: 1) la preparazione del personaggio dal 1949 al 1956 con sedici film in coppia con Dean Martin; 2) lo sviluppo autonomo del personaggio dal 1957 al 1960; 3) la definizione di un carattere e di un mondo con i film interpretati, scritti, diretti e prodotti personalmente dopo il 1960: sono finora sette, da Ragazzo tuttofare (1960) a 3 sul divano (1966). La suddivisione è di comodo. Non tiene conto degli otto film diretti da Frank Tashlin che, grazie alla personalità del regista, costituiscono un blocco omogeneo: il primo è Artisti e modelle (1955) e appartiene alla prima fase, l’ultimo è Pazzi, pupe e pillole (1964) e rientra, perciò, nella terza. Inoltre, da quando ha esordito nella regia, Lewis ha continuato a interpretare film con altri registi; ricordiamo gli ultimi due, Boeing Boeing (1965) e Stazione Luna (1966), entrambi mediocri, ma interessanti almeno perché confermano indirettamente l’inizio di una quarta fase, quella della maturità.

 

Sulle qualità di Jerry Lewis attore è difficile avere dubbi. E se il primo periodo della sua carriera è all’insegna della ripetizione più che dell’evoluzione, come ha fatto osservare Adriano Aprà in un acuto saggio (Il meraviglioso mondo di Jerry Lewis, «Filmcritica», n. 141), lo si deve alla circostanza che l’attore ha cercato per diversi anni di mettere a punto una comicità visiva e di esplorare tutte le vie possibili della propria arte pantomimica e fonica.

Si deve dire subito che una delle ragioni che hanno impedito al pubblico e alla critica italiani di apprezzare Jerry Lewis come meritava, e merita, è il doppiato. […] Ne Il nipote picchiatello c’è una scena in cui Jerry Lewis, impossessatosi di un centralino, imita al telefono la voce di Nina Foch; la sua mimica facciale dà un’immagine eloquente del suo exploit, ma l’effetto comico è frustrato dal doppiato; basti dire che nell’edizione italiana s’è stati costretti, in quella sequenza, a usare la doppiatrice stessa della Foch. Allo stesso modo potremmo citare la scena in cui Lewis passa improvvisamente dall’imitazione di un ragazzone di 14 anni a quella di un gangster, mimando, con l’espressione del volto e il tono della voce, Humphrey Bogart.

Un giorno chiesero a Marilyn Monroe di fare una lista dei dieci uomini più «sexy» del mondo. La fece. Tra i dieci nomi c’era quello di Jerry Lewis. Che cosa poteva trovare di sessualmente attraente la povera M.M. in questo buffo per il quale spettatori e critici usano con metodica monotonia l’aggettivo «scimmiesco», per questo comico che dopo essere stato di volta in volta «The Id» (l’idiota) e poi «Ug» (il brutto) «ha saputo, con un’intelligenza quasi diabolica, costruire su questi soprannomi così offensivi una mitologia personale, uno stile comico, e un piccolo impero industriale»? (Robert Benayoun, Jerry Lewis, Man of the year, «Positif», nn. 50-52).

 

Probabilmente il fatto di essere stato per tanto tempo un adulto che si comporta nella finzione con la mentalità di un bambino, anzi di un bambino yankee: represso, dissociato, impaurito. Nonostante le differenze esteriori, è chiara la sua parentela ideale con Stan Laurel per il quale, d’altronde, ha una grande ammirazione; lo chiama «the one and only Stan», l’unico e il solo Stan.

Anche Jerry Lewis è unico. È l’ultimo dei grandi comici espressionisti, quelli che pensano col corpo e si esprimono con una spasmodica acrobazia muscolare: dallo strabismo vertiginoso all’assurda dinamica delle gambe. Così come, sul piano del sonoro, la sua comicità è di carattere fonico più che verbale: fa ridere per il modo con cui pronuncia una battuta, quasi mai per quel che la battuta dice. […]

«I Like Liking You» – cioè voglio piacervi – è, al tempo stesso, il suo motto di personaggio e di uomo di spettacolo. Qui ha le radici il pericolo che fa da ombra costante al suo lavoro, il sentimentalismo. Comico e sentimento possono convivere, e il cinema di Chaplin lo dimostra, ma a patto che il secondo non allenti né indebolisca il primo. La tentazione costante di Lewis è la pretesa di essere amato per la sua amabilità quanto per la sua buffoneria. Quando sarà riuscito a dominarla, arriverà al capolavoro che ha sfiorato con Le folli notti del dottor Jerryll e al quale è andato vicino con L’idolo delle donne e Jerry 8 e 3/4.

Joseph Levitch, in arte Jerry Lewis, ha compiuto 41 anni lo scorso 16 marzo. Con 3 sul divano (1966), suo settimo film, ha fatto il suo definitivo ingresso nel mondo degli adulti. Presa nelle sue linee principali, la vicenda può persino far pensare a quella di una commedia del più tradizionale teatro di consumo con pretese psicologiche. Un Feydeau che abbia orecchiato le teorie di Freud.

Christopher Pride (orgoglio, in inglese), pittore, vince un concorso che gli permette finalmente di sposare Elizabeth Accord (consenso), dottoressa in psichiatria, e di trasferirsi per un anno a Parigi. Ma Elizabeth è indecisa, vorrebbe rinviare ancora le nozze: ha tre pazienti, tutte giovani e belline, che non si sente di abbandonare, affidandole ad altri medici, in una fase delicata della cura. Come si vede, sembra una situazione canonica di conflitto tra Ippocrate e Cupido, tra dovere professionale e sentimenti privati, ma a parti invertite.

Le tre pazienti soffrono del medesimo complesso di misantropia: reduci da delusioni amorose, odiano gli uomini. È una reazione che non manca di logica: anche se il dialogo dell’edizione italiana non è molto esplicito su questo punto, sembra che i loro ragazzi le abbiano deluse perché di dubbia virilità.

Christopher Pride ha una pensata: all’insaputa della fidanzata decide di sottoporre le tre ragazze a un personale trattamento terapeutico. Fa la corte a ognuna delle tre, incarnandone i rispettivi ideali maschili: Rutheford, un misogino appassionato di zoologia; Ringo Raintree, un rude cow-boy del Middle West; Warren, un accanito cultore di esercizi sportivi.

Ritorna in 3 sul divano quel tema dello sdoppiamento comune a tutto il cinema di Jerry Lewis regista […]. C’era in Il Cenerentolo (1960), film con il quale Jerry Lewis voleva esordire nella regia e che all’ultimo momento affidò a Frank Tashlin, una battuta eloquente: «I’m going to be my reverse», cioè sto per diventare l’opposto di me stesso. Così l’ha commentata il critico francese Jean-Louis Noames: «Già quest’ossessione dei doppi, questo desiderio incontrollato di rovesciare la propria natura e la “paura” che ne consegue. Poiché qui, come in Le folli notti del dottor Jerryll, c’è sempre, dopo il fascino dell’opposto, un panico ancor più forte che obbliga Jerry a desiderare questo ritorno all’ambiente primitivo».

Tra i film di Frank Tashlin e quelli di cui l’attore s’è assunta la piena responsabilità creativa c’è questa differenza di fondo: […] arrivato alla maturità, Jerry, già spaesato e ipersensibile e nevrotico, tende, invece che ad adattarsi, a signoreggiare il mondo. […] Lo si vede nella vicenda di cui determina e controlla gli sviluppi. Lo si vede persino nella scelta della «partner», la sua quasi coetanea Janet Leigh. Con la parziale eccezione di Stella Stevens in Le folli notti del dottor Jerryll, non era mai stato concesso nei suoi film uno spazio così vasto a un personaggio femminile. Anche nei titoli di testa il nome della Leigh è alla pari col suo. Inoltre, per la prima volta, la donna non è il traguardo ideale, l’obiettivo di una conquista, ma una persona au pair, una fidanzata dalla quale non si è divisi che da una cerimonia, da un atto legale.

S’è già detto che la materia del film non è molto dissimile da quella di una commedia sofisticata: protagonista potrebbe esserne un Cary Grant o un Tony Curtis. Se si toglie il personaggio di Heather (in inglese: violaceo o erica), la finta sorella di Rutheford (che per misteriosi motivi è stata trasformata in zia nell’edizione italiana) il tema dello sdoppiamento è qui affrontato senza trucchi né travestimenti: per assumere le tre diverse personalità s’affida unicamente alle sue risorse di attore. […] Ma è proprio vero che questo Christopher Pride potrebbe convenire anche a Cary Grant? Soltanto in apparenza. Evidentemente, pur nella sua evoluzione verso la normalità – e la dignità – Jerry Lewis non può e non vuole staccarsi completamente dalle radici della sua buffoneria. Non a caso la caratteristica comune dei suoi tre travestimenti maschili è l’incompetenza: cacciato dalla porta, il personaggio del disadattato, dell’«id», dell’«ug» rientra per la finestra.