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Dall’industrial design al social design

Il successo del design italiano si rivela, troppo spesso, un fenomeno individualistico di alcuni architetti intelligenti, inventori di prototipi, rimasti esemplari rari nelle mani di un’industria incapace di raggiungere una vera produzione di massa a prezzi accessibili ai più e con garanzie sicure di funzionamento nel tempo. C’è dunque un problema sostanziale nel disegno industriale di oggi: la necessità di non lavorare individualisticamente per elementi singoli

 

Mentre il disegno industriale italiano corre il mondo ottenendo apprezzamenti e successi, si sono avuti i primi sintomi di crisi proprio in Italia.
L’ultima edizione del «Compasso d’oro» è stata sull’orlo della contestazione. Ma, contrariamente alla protesta verso le manifestazioni dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, della Triennale, ecc., questa contestazione non è riuscita a raggiungere l’obiettivo di critica globale che si era proposto. E vedremo più avanti perché.

[…] Si potrebbe osservare che in quasi tutte le nazioni del mondo, con la sola eccezione di alcuni settori e di alcuni paesi nordici europei, il disegno di oggetti era corrispondente alla sua definizione di «industrial design», dove la preoccupazione del disegno era assai più in funzione di qualificazione e distinzione del proprio prodotto nei confronti di quelli della concorrenza che verso la funzione sociale dell’oggetto stesso.
È questa anche la ragione per cui l’esteticità dell’oggetto era soprattutto vista in termini di funzionalismo e razionalismo e assai meno in termini di espressione, tenendo conto del contesto in cui l’oggetto sarebbe stato collocato e vissuto.
In tutto questo giocava, come giustificazione, proprio la concezione del «movimento moderno» in architettura che aveva postulato con Gropius e Mies van der Rohe la coincidenza fra produzione industriale, produzione sociale ed esteticità moderna.

Lo stesso Le Corbusier, ripensando alla sua esperienza nello studio di Behrens (che può essere considerato il primo «industrial designer» che considerava il «brutto funzionalistico» un dovere), dichiarò che «nessun uomo può oggi rinnegare l’estetica che si va sviluppando dalla creazione dell’industria moderna». «È nella produzione artistica generale di una epoca che si trova il suo stile e non, come troppo spesso si suppone, in certi prodotti di carattere ornamentale.» Di fronte a questa situazione ancora piena di «complessi», in Italia, dopo una grossa crisi di ritorno al liberty, doveva esplodere un tipo di disegno industriale che, pur tenendo conto delle lezioni funzionalistica e razionalistica, segnava una ripresa o un arrivo alla fantasia, all’immaginazione, al gusto dell’oggetto coraggiosamente «bello». Le macchine per scrivere Olivetti, disegnate dal pittore Nizzoli, cominciavano a piegare gli angoli retti delle lamiere in curve plastiche e a tradurre le leve e i carrelli in elementi ammorbiditi e gradevoli, non solo all’uso, ma anche alla vista. Queste macchine, attraverso un lungo lavorio di perfezionamento, dovevano arrivare, prime nel mondo, al Museum of Modern Art di New York.

Albini, Gardella, i BBPR, Castiglioni ed altri fra i migliori architetti italiani, inventavano lampade, tavoli, librerie, mobili per uffici e per la casa, attrezzature per musei e mostre, arredi per sale e teatri, pieni di una nuova carica inventiva, spregiudicati nell’uso dei materiali, dove la putrella razionalistica si accoppiava al marmo o il legno, il cuoio e la stoffa raffinati a supporti metallici semplici.

Ma la generazione più giovane degli Zanuso, Magistretti, Gregotti, Aulenti, Sottsass, Steiner, Munari, Sambonet, Max Bill, Huber, Bellini, Conte e Fiori, Bonetto, Colombo, Menghi, A. Castelli, Helg, Rosselli, Mari, A. e T. Scarpa, ecc., doveva fare un passo ulteriore, affrontando con rinnovata fantasia gli oggetti, fino ad allora monopolizzati dalla austerità industriale.
E venivano così trattati con un disegno più aperto e libero oggetti dal grande calcolatore fino alla televisione, al telefono, alla macchina per cucire, ecc.

Il disegno industriale italiano investiva, a questo punto, anche gli altri oggetti già citati, disinibendo i designers dalle ultime remore. E gli architetti italiani delle generazioni più anziane come di quelle più giovani riprendevano un discorso più libero anche per le lampade, le poltrone, gli arredamenti della casa, le cucine, la posateria, ecc.
Il successo arrivava a livello mondiale e gli oggetti italiani, e i negozi che li esponevano, diventavano punti di richiamo da New York a Parigi, da Londra a Francoforte.

Perché allora la crisi?
Malgrado il successo, molti oggetti sono rimasti «aristocratici». I loro costi sono elevatissimi ricreando, proprio nel campo dove la grande produzione sarebbe possibile, il «pezzo» raro, unico, da collezionista.
Infine, come si dice sull’ultimo numero di «Casabella», gli oggetti sono belli ma spesso (anche per opera di imitatori) fragili, non sempre funzionanti, senza possibilità di manutenzione o ricambio di parti che si deteriorano. Non esiste, per quantità così piccole, una possibilità di verifica precisa nel tempo e, tanto meno, un controllo di qualità.

Continua «Casabella»: «Per chi compera l’automobile vi è la possibilità di leggere e di orientarsi sulle prestazioni della macchina, nel mercato del mobile, invece, ci si guarda bene di indicare, neppure minimamente, le prestazioni di ciò che si offre». «Un controllo del progetto da parte degli organi capaci di selezionarlo e poi garantirlo» non esiste. Il successo del design italiano si rivela, troppo spesso, un fenomeno individualistico di alcuni architetti intelligenti, inventori di prototipi, rimasti prototipi o esemplari rari nelle mani di un’industria ancora troppo piccola, a livello artigianale, incapace di crescita per raggiungere, dopo i necessari collaudi e verifiche, una vera produzione di massa a prezzi accessibili ai più e con garanzie di funzionamento nel tempo.

Eppure, come dice giustamente Magistretti «il disegno italiano finirà se non si avrà una vera grande industria». «Industria, materiali, grande numero, questi i dati positivi della produzione per oggetti… che devono essere destinati ad una grande massa, in un’opera di arricchimento culturale, destinato a muoversi dal basso.» E Magistretti è ancora più severo e conclude: «Questa è l’opera principale del designer, altrimenti diventerà “soubrette” del design, cadrà nella moda, nella soddisfazione effimera dei bisogni pseudo-snobistici di un artigiano che gioca a fare l’industriale». Ma c’è anche un problema più profondo, più grave, più sostanziale nel disegno industriale di oggi. Perché se si trattasse solo di una questione di estensione quantitativa e di controllo di qualità degli oggetti positivamente già disegnati, una nuova organizzazione produttiva potrebbe risolvere il problema e, del resto, la concorrenza straniera, a partire da quella francese, americana e tedesca, sta già provvedendo lanciando sul mercato oggetti ben disegnati e ben costruiti, talora come imitazione o variante dei prototipi italiani. Dicevamo che il problema è altro e grave perché non si tratta solo di un problema di organizzazione quantitativa.

Il disegno industriale si è accanito e si accanisce, in quasi tutti i paesi del mondo, solo su una fascia ristrettissima di oggetti, soprattutto di apparecchi e di arredamenti per la casa. Così avviene anche un fenomeno preoccupante e antieconomico di una concorrenza spietata.

Ogni anno nascono centinaia e centinaia di esemplari simili di poltrone, divani, lampade, sedie, portacenere o addirittura accendisigari o rasoi elettrici. Sembra che solo questi tipi di oggetti possano essere disegnati e che le variazioni possano essere infinite. Questo tipo di concorrenza sugli stessi tempi è anche la non ultima ragione che scoraggia la produzione di grande serie con caratteri di durata nel tempo.

Dove la concorrenza è così forte, la moda viene ad avere il sopravvento e per mantenere il mercato occorre cambiare continuamente il modello, proporre altre soluzioni, spesso peggiori, esteticamente e funzionalmente, di quelle precedenti. Cosicché il design diventa un vestito da cambiarsi ad ogni stagione, non una sostanza durevole.

Il fenomeno si ribalta sull’arredamento delle case, dove sembra impossibile organizzarsi per un’intera vita perché occorre passare, per non essere fuori gioco, dal «tutto vetro» al «neo-liberty», dai mobili di «cuoio e di legno» al «plexiglass nel bianco assoluto». All’orizzonte si profila il mobile di cartone pressato da bruciare secondo gli umori di «Vogue casa».

E ciò indica la disgregazione del valore dell’abitare che è stratificazione di memoria e di invenzione, di conservazione di oggetti e di introduzione continua di nuovi, corrispondenti allo sviluppo della personalità, come ha ben chiarito il sociologo e psicologo Mitscherlich.

Ma a parte questo fenomeno, a nostro parere negativo, resta l’altro grande problema e, cioè, quello di abbandonare la concorrenza spietata in un campo limitatissimo di disegno per allargare l’orizzonte a tutto quanto non è ancora disegnato ed ha bisogno di esserlo.

Nell’ultima edizione del «Compasso d’oro» italiano, che ha un’attenzione internazionale ed anche, appunto, giudici internazionali, ci si era proposti di rompere il cerchio e di cercare esempi di design nei settori della ricerca scientifica e tecnica, dell’istruzione e della scuola, della sanità, dell’assistenza, del tempo libero, del turismo, ecc.

E dopo un lungo lavoro di indagine, si è potuto verificare che questi campi, almeno nel nostro paese, sono pressoché privi di «design». […] Esistono elementi di questo genere in altri paesi, ma per punti singoli e disparati, per cui, la Polonia può vantare di avere modelli avanzatissimi di attrezzature di sale chirurgiche, o l’Inghilterra positivi esempi di attrezzature scolastiche.

Ma quello che manca quasi ovunque, ad eccezione di alcuni punti nei paesi scandinavi, è un disegno di insieme, una logica complessiva nella cura degli oggetti.

[…] Alcuni spiragli (esempi per un possibile futuro) si possono avere in certe aree della Svezia o della Danimarca e, qualche volta, dell’Olanda, dove il banco di lavoro nella fabbrica e il banco di scuola, il tavolo di laboratorio e il tavolo del ristorante, la segnaletica delle strade o la posata e la lampada nella casa, indicano un punto di riferimento ad un gusto unitario, ad una serietà di discorso complessivo.

Proprio da questi rarissimi esempi, ancora imperfetti e incompleti, si può intravvedere quello che potrebbe essere il compito nuovo del disegno industriale nel mondo moderno.

È dimostrato dalle più recenti «teorie dello strutturalismo» applicato all’urbanistica, all’architettura e al disegno di oggetti che ogni elemento visivo incide continuamente sulla psiche dell’uomo, colpendola con messaggi, indirizzi, indicazioni di comportamento. Se questi segnali sono positivi e corretti, il risultato è quello di una educazione civile che si aggiunge a quella della scuola e dell’istruzione. Il cittadino moderno si forma assai più nelle strade e nei luoghi che frequenta che per la lettura, abituato com’è all’influenza visiva. Mai come oggi sembra che sia essenziale mettere ordine nel caos nel quale viviamo per dare all’uomo non tanto orientamenti, quanto suggerimenti alla coerenza e allo sviluppo della propria personalità. Esemplare, in questa direzione, è lo sforzo fatto dalla «Scuola di Urbino» dove si è tentato di progettare un modello a servizio della stessa città, mettendo in un ordine chiaro e significativo la segnaletica, la pubblicità, i manifesti (che invitano la cittadinanza alla partecipazione alle questioni pubbliche), l’organizzazione di centri culturali e scolastici, le attrezzature per i centri amministrativi, liberando, nel contempo, gli edifici antichi e moderni da un sovraccarico di insegne frastornanti e deturpanti.

Questo lavoro è stato segnalato dal «Compasso d’oro» di quest’anno e nella stessa direzione sono stati segnalati, nonostante la discontinuità dei risultati finora ottenuti e nonostante il livello non ancora sufficiente, un treno operaio per pendolari delle Ferrovie dello Stato che comincia a rendere meno disagevoli questi viaggi; un pullman per i trasporti pubblici in cui si possa avere un massimo di confortevolezza ed intensità di visione; un letto di ospedale, che sia almeno confortevole, servito di tutto quanto necessario, senza l’umiliazione del paziente e separabile facilmente dai letti di corsia; apparecchiature non aggressive per le sempre penose prove di laboratorio per l’ammalato; una scuola che, pur usando i metodi più avanzati di prefabbricazione, non rinunci, anche con l’uso di pannelli di legno, a dare un calore alle aule scolastiche e al complesso generale; un gioco in cui il bambino riesca ad afferrare la tridimensionalità dello spazio, allargando la mente senza coercizioni; attrezzature, in origine progettate per case di lusso, adattabili a centri di assistenza; strumenti ed apparecchi per la ricerca scientifica dove, al di là della pura funzionalità della macchina, il ricercatore si trovi in un ambiente in cui la macchina stessa esprima la sua duttilità a servizio dell’indagatore, ecc.

E anche la contestazione ha dovuto prendere atto di questo sforzo.

La carenza di cose già fatte e i vincoli del concorso stesso, che impone che gli oggetti siano già prodotti in serie per essere presi in esame, non ha permesso di andare oltre a questa esemplificazione e indicazione. Ma, a mio avviso, è proprio su questa strada che occorre insistere sollecitando e promuovendo nuove iniziative nei campi fino ad oggi trascurati e dove maggiore sarebbe la necessità di un esercizio del disegno.

Se si riuscisse a rompere il cerchio ristretto del campo attuale in cui è praticato il disegno industriale ed allargarlo ai tanti settori fino ad oggi inediti, il disegno industriale non solo non andrebbe in crisi, ma potrebbe vedere un nuovo «boom» di dimensioni fino ad oggi non immaginate.

E, del resto, si tratta anche qui di oggetti prodotti dall’industria, che potrebbe così essere sollecitata ad estendere il suo orizzonte con importanti risultati, sia in campo nazionale che nell’esportazione. Ma perché questo problema sia concretamente affrontabile e risolvibile sta, al fondo, la necessità di non lavorare individualisticamente per elementi singoli.

A mio avviso il rilancio, a grande scala, del disegno richiede appunto di affrontare i problemi della grande dimensione. È la città, in quanto tale, che va disegnata coerentemente dalle sue linee generali fino all’ultimo dettaglio e ciò, si badi, non costringendo il tutto in un unico modello, ma lasciando che tutti i singoli apporti si sviluppino con massima fantasia, purché dentro un contesto che abbia un fine comune.

È in questo modo che venivano, nei secoli, realizzate le città medioevali che ancor oggi ci stupiscono per l’impianto complessivo, per la costruzione dei singoli edifici, per i mobili e gli oggetti ancor oggi valutati di altissimo valore.

Quello che allora poteva fare la mano dell’artigiano oggi può fare, in ben mutate condizioni, la mano del designer prolungata nell’industria. Il designer potrebbe uscire dall’isolamento e dalla subordinazione, lavorare non per fini particolaristici, ma per obiettivi sociali generali, venire a far parte – come ricercatore e progettista – del «terziario avanzato», collaborando con gli altri specialisti e sottoponendosi alle scelte e alle verifiche degli utenti, per lo scopo comune di dare una nuova immagine liberante alla città in tutte le forme della vita associata.

Ma allora il passaggio decisivo starebbe proprio nel capire la necessità di praticare finalmente l’«industrial design» come «social design».