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La Mosca di fuoco

a Ernest Hemingway

 

La lezione di filosofia teoretica finiva alle sei e il Prof. B. ci salutava sulla porta uno per uno – molto pochi eravamo – e il corridoio dell’università era oscuro e freddo e molto inospitale. Di solito fuori c’era nebbia, c’era, e uscendo dicevo a Remo: però è intelligente, oppure, è proprio simpatico, e Remo diceva che sì, che era in gamba, B., ma lui aveva capito tutto e io quasi niente del problema gnoseologico o della conoscenza. C’era nebbia in corso Roma, una nebbia spessa e grigia che si infittiva al Bottonuto e qualche volta, senza parlare e sottobraccio, si andava in via Chiaravalle dove le lampade giallastre appena foravano la nebbia e le piastrelle del corridoio erano bianche e trasudavano umidità e l’odore là dentro era uguale a quello della nebbia, ma più acido e meno accogliente e c’era molta luce e caldo. Quell’inverno ebbi l’auto, una 509 millemiglia che quando la comprai costò a mio padre 1000 lire e aveva fatto 100 mila chilometri. Era gialla e aveva i cerchioni rossi e i cerchioni avevano i raggi che alcuni erano cromati e gli altri arrugginiti e c’era il mozzo per togliere la ruota e anche lui era ruggine e aveva le gomme pirelli molto consumate ma ancora buone, una spider a due posti era e dietro avevo un buco per un terzo e là dietro ci potevano stare anche in due a pigiarsi.

Dopo pochi giorni, Beppe e Filippo erano diventati davvero bravi e si sdraiavano sui parafanghi davanti e Renzo si metteva a cavalcioni sulla ruota di scorta, molto malandata, quella, che si sfilacciava e qua e là si vedeva il rosso mattone della camera d’aria. Era preoccupato Mario di quella gomma, ma io ridevo tranquillo e Albertino diceva che non importava, che bastava servisse per i pochi chilometri fino al primo garage, ma non ci capitò mai di dover cambiare una ruota benché in segreto lo sperassimo con molto desiderio.

La targa portava scritto bz, mezzo cancellato, ma di notte la luce bianca e rossa del fanale posteriore la illuminava bene, bz, ed allora gli arrivi in Chiaravalle furono sfacciati e adulti, pieni di spavalderia e Remo da allora fu meno riservato e il professore di filosofia non era più il nostro tema. Parlavamo di cilindri e di alesaggio senza sapere che cosa fossero, lui diceva che la macchina era ridicola ma utile e Mario la battezzò Mosca di fuoco e io dissi che però non era brutta con quel colore giallo e che comunque i freni erano buoni, guardate, dissi.

Sulla Mosca c’erano Remo, Mario, Tullio, e io la spinsi a settanta all’ora lungo la via Bellini e frenai tre metri prima della Bianchi che era ferma davanti ai cancelli di via privata Livorno, ma la Mosca continuò e investì la Bianchi che per fortuna era frenata e fece un balzo avanti, e un altro ne fece al secondo urto, e la Mosca finalmente si fermò davanti ai cancelli, un poco ammaccata sul radiatore che adesso perdeva un po’ d’acqua.

Remo disse accidenti, porcogiuda bestemmiò Mario, Tullio rideva, guarda un po’ dicevo io scuotendo la testa e scesi a vedere quello che era successo ma non era successo niente di grave e i pneumatici avevano tenuto, questi pirelli dissi, ed eravamo sbalorditi.

Quella sera andiamo al Continental alla festa del guf e c’erano ragazze che ci aspettavano, noi in abito nero, smoking, e le ragazze avevano alle spalle nude e odoravano di buono, sempre in sette sulla Mosca, rombando ci fermammo davanti alla bussola e il portiere ci salutò con un grande inchino, come ormai ci salutavano i vigili agli incroci, conoscevano la Mosca e ridevano, guarda, dicevano, sono quelli della bz, e ridevano e mai mi dettero la multa.

Solo una volta ce la dettero che la Mosca restò tutta la notte all’ingresso di via Paolo da Cannobio, dalla parte del palcoscenico del Lirico, e sbarrò tutta la strada, e molti clacson suonarono per chiedere il passaggio, ma noi eravamo nella trattoria della Sora Amelia a fare la corte all’Elsa, e Giorgio aveva bevuto un fiasco di Chianti che stava restituendo in un angolo insieme agli spaghetti e al tonno fra gli strilli della Sora Amelia e Pelosini strillava a Valli che non sapeva sparigliare, Mario, Remo e io mangiavamo fagioli toscani e l’Elsa non si lasciava toccare nemmeno una mano… Il vigile mise quattro biglietti per la multa, uno ogni due ore, ma nessuno pagò la multa né so più che fine abbia fatto. Nemmeno in Pretura andammo.

Nel dicembre di quell’anno – era il 1932 e c’era molto freddo, nebbia e neve sulle campagne spoglie, sotto il bianco la terra bruna e pochi erano i contadini sui campi – Mario, Tullio, io e Albertino decidemmo che assolutamente dovevamo fare un film per i littoriali, e Castellani che era il dirigente del Cine guf disse bene, che stava proprio bene disse e che era una ottima idea e dunque preparassimo il soggetto e la sceneggiatura, che poi si sarebbe visto.

Mosca partiva come un razzo da piazza Giovinezza, come un proiettile fra il traffico natalizio e festoso fino a casa mia, urrà che faremo il film migliore del mondo, e sociale dev’essere, proclamava Albertino, come no, lo incalzavo io. Incrociatore Potëmkin; Linea generale; Verso la vita. A Mario venne l’idea di ambientarlo in un deposito di locomotive, meglio una tipografia, dissi io, capisco, disse Tullio. E fu deciso, sebbene Remo dicesse che gli pareva tutta una stupidaggine e si rifiutasse di fare il primo attore.

Clelia, che era bella e piaceva a tutti anche se era allontanante e intellettuale, accettò di fare la prima attrice, e altri c’erano che dissero di sì e altri che dissero di no. Giorgio disse, perché no? Farò volentieri i dialoghi, e noi fummo felici perché lui era antifascista e sapeva come erano gli operai e poi ce l’aveva con la borghesia, sporchi borghesi, diceva Mario e poi recitava come suo padre i Sepolcri, scalpitando. La Mosca servì molto in quel periodo, ci portava con pazienza per la periferia di Milano a cercare i posti e i pirelli stridevano sull’asfalto lucido delle curve e tenevano la strada anche a settanta, e in periferia c’erano alberi neri di pioggia e povera gente che si scaldava intorno ai carrettini delle castagne arrosto, brutto inverno, dicevano, e noi scendevamo dalla Mosca fra la meraviglia di tutti, parlottando, e facevamo grandi gesti, atteggiando le mani come una volta ci era capitato di veder fare a Blasetti, e qui, diceva Albertino, qui la macchina e un bel campo lungo e io dicevo già, e poi subito ci vuole un primo piano di Clelia infagottata in una sciarpa da uomo, caldi eravamo nella nostra gioia e dei poveri. Dannati dalla terra, compiangeva Mario, e Giorgio prendeva appunti perché i dialoghi fossero «realisti» e andava in Chiaravalle per cercare il clima, diceva lui, con una bottiglia di cognac, e la Mosca aspettava fuori fra la nebbia, umida e allegra nei suoi giallo e rosso che impallidivano sotto i fiochi fanali lontani e tristi.

Fu il mese dopo, era un gennaio ostile e pieno di freddo, c’era vento sulla pianura e molto freddo, che si decise la spedizione a Verona nella tipografia di mio padre, ancora per cercare i posti dal vero e per farsi un’idea delle masse. Le masse, diceva Giorgio, bisogna conoscerle bene, penetrarne la psicologia, precisava fra la rispettosa attenzione di Tullio e Albertino, e certamente rincarava Tullio convinto, e bisognava trovare i generici, aggiungeva Mario, Dio buono, dissi io, ma anche Clelia bisognerà portare, ma Clelia disse di no, che non poteva venire sola a Verona con quattro giovanotti, e Remo rise dicendo che eravamo stupidi.

– Si va lo stesso – decisi.
– Che ce ne importa di quella lì – diceva Mario.
– Cento ce ne sono – dicevo arrabbiato e deluso – altre cento ne troviamo, Maria, Isa, Laura… Lulù magari, – dicevo – la bella di Chiaravalle.
– Se le pare verrà quando gireremo – disse Albertino.
– Sei scemo? – diceva Mario – Che c’importa?
– Davvero – disse Tullio – che c’importa.

E partimmo che l’alba era grigia in un cielo di latte sporco, e bianchiccia era l’autostrada di brina, un nastro d’avorio sporco era tra il bianco opaco e luminoso dei campi. Lontane c’erano montagne azzurre vicino ai campi, cupe a metà, bianchissime verso il cielo, e più lontane ancora montagne, ma più basse, brutte e gialle, e ai loro piedi c’era la pianura bianca con tanti alberi spogli e gli uomini erano chiusi nelle case come i buoi e i cavalli e i trattori. La Mosca correva sul nastro sporco, cammina bene, dicevo compiaciuto, benissimo, confermava Mario, e nel buco dietro Tullio e Albertino stavano zitti per paura di girarsi la lingua benché fra noi e loro avessimo rizzato un telo di juta che si gonfiava al vento freddo di quel gelido inverno. Era cattivo il vento e c’era nebbia e sporco e malinconia sulla pianura. Tutto bene? gridavo a pieni polmoni senza voltarmi, e da dietro arrivava un borbottio animale, stanno benone, decise Mario, vai pure, e io spingevo l’acceleratore, felice di sentire i pirelli mordere l’asfalto misto alla fanghiglia bianchiccia, che macchina, dicevo, che macchina, confermava Mario con orgoglio, ma dopo Bergamo la Mosca sembrò stanca, soffiava come se fosse stanca, un cavallo stanco e bolso, e accidenti, dicevo, porcogiuda, bestemmiava Mario, che razza di rumore fa e Albertino spuntò dalla juta con il naso rosso e la bocca rigida, puzza, diceva, come puzza, porcogiuda, continuava Mario, e Tullio taceva rabbrividendo.

– Fermati – disse Mario.
– No – mi ostinavo – non è niente, difetto di carburazione.
– Ma puzza – diceva Albertino.
– Tu, puzzi – dicevo io irritato.
– Ferma, ferma. – urlava Mario – Frena!
– Cosa fermo, cretino – dissi.
– La Mosca, ferma.
Mosca di fuoco, – brontolò Tullio, e Mario da sopra la juta gli allungò un cazzotto.
– Puzza, perdiana, fermati.

Mi fermai e c’era la nebbia umida che appannava il parabrezza e il sole sembrava un’arancia nel cielo grigio e sfilacciato.

– Apri – dissi a Mario.– Neanche per sogno, apri tu.
– Non fate gli scemi – diceva Albertino
– dai, apriamo il cofano. Uscì molto fumo nero e puzzolente che si confuse presto con la nebbia, il motore faceva tru tru tru, singhiozzando, e dappertutto colava olio, un olio nerastro e puzzolente, e c’era fumo nero intorno e tanta nebbia che gli alberi si confondevano con il cielo e la pianura che era piena di tristezza e di pigrizia.
– Carburazione – dissi io con sicurezza dopo un certo tempo – o difetto di accensione.
– Già – diceva Mario – e quell’olio da dove viene?

Tullio si sdraiò sotto la Mosca e gridò che il tubo di scappamento scottava.

– Idiota – disse Albertino – che c’importa di quel bidone di scappamento?

Tullio cacciò fuori la faccia che era diventata sporca e lucida di olio, e nella faccia gli occhi erano due macchie nere, sperdute, e disse solennemente che Albertino doveva andarci piano con le parole e che voleva essere rispettato. Mario guardava e aveva molti dubbi e io insistevo che la faccenda era solo una faccenda di carburazione.

– O di accensione – disse Mario.
– Smonta la bobina – suggeriva Albertino.

Tullio taceva offeso e nessuno passava nel mattino e adesso il giorno schiariva sotto le nuvole gialle e uccelli di passo volavano rapidi e bassi sulla campagna e passò anche un’alfa e poi una balilla e noi continuavamo a discutere, molto preoccupati e stanchi e c’era molto freddo, intorno a noi.

– Dov’è la bobina – chiedevo io.
– A me lo dici – disse Mario alzando le spalle.
– No, ad Albertino che studia al Politecnico lo chiedo.
– In architettura non è obbligatorio sapere dov’è una bobina, confidava Albertino a Tullio che diceva di sì, che era vero e che io e Mario la piantassimo di fare i fessi e darci delle arie.

Poi si fermò un camion, di quelli grandi con il rimorchio, e dalla cabina scese un uomo grosso e strafottente che guardava nel cofano tirandosi su i capelli con l’avambraccio unto e disse bronzine disse, quel porco, fuse le bronzine, aggiunse con aria pedante distratta e risalì nella sua cabina così alta che più alta delle nostre teste e ci lasciò lì con quelle due parole, mentre il camion scompariva nella nebbia e ancora fumo usciva dal cofano anche col motore fermo – l’uomo aveva tolto il contatto dicendo se eravamo scemi, del resto quattro scemi di gagà aveva detto – e anche olio bruciato che colava piano piano e a terra si formò una viscida pozza sullo sporco bianchiccio dell’autostrada e altro fumo azzurro e puzzolente arrivò dallo scappamento del camion ormai lontano, e azzurra era diventata la pianura.

– E adesso chi ci riporta a casa? – disperava Tullio.
– Tua nonna con le ruote, dissi io e Tullio si arrabbiò un’altra volta dicendo che sua nonna non aveva le ruote. Piantala, disse, e mettiti lì a fare dei segni, meglio se tu fossi una donna così i camionisti si fermerebbero, e nella nebbia nessuno si fermò per due ore finché il sole uscì fuori e non c’era più nebbia ed era mezzogiorno e avevamo fame, e anche freddo avevamo, e allora Albertino tirò fuori una bottiglia, che scemo gridò Mario, ma guarda che scemo dicevo io, adesso aspetti, certo rispondeva Albertino, aspetto che siamo stanchi, e bevemmo al collo il cognac che scendeva caldo fino ai piedi.
– Un camion, un camion si ferma – annunciò estasiato Tullio che era ubriaco e barcollava sotto un ponte.
– Com’è piccolo – disse Mario.
– Ma è rosso – disse Alberto.
– Dai, dai – dicevo io – non perdete tempo.
– Chiedigli se ci rimorchia – disse Mario.

Così tornammo a Milano rimorchiati a venti all’ora e il freddo ci tagliava la faccia e le ruote facevano un rumore simile all’acqua sbattuta da due mani in una fontana azzurra di freddo, e ogni tanto il camionista si voltava e rideva. Poi la Mosca di fuoco fu venduta come rottame e comperai la balilla e poi la millecento, ma non fusi più bronzine e quando c’era la nebbia, sul parabrezza c’erano luminosi i fili incandescenti e oggi l’auto è riscaldata e ci sono fari antinebbia e il defroster e tanti bottoni sul cruscotto e ancora i pirelli che girano e mordono l’asfalto e la neve e il ghiaccio e vai a cento all’ora, a centotrenta anche a centocinquanta, se la sai portare e i pirelli tengono forte, sull’autostrada che in dicembre è di nuovo un nastro sporco fra i campi brulli e stanchi sotto il cielo bianco di neve.