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Automobile piccola industria

Sono nate in questi anni in Italia molte piccole fabbriche di vetture sportive. Dietro ognuna delle nuove sigle, che in qualche caso corrispondono a laboratori artigiani, ci sono altrettante storie: di vecchie radicate passioni o di ambizioni recenti o di hobbies favolosi o di vocazioni solitarie.

 

Nel tempo in cui i colossi della produzione automobilistica mondiale si alleano, si affiliano, si fondono, si fagocitano perché il futuro sembra solo nelle mani dei super-colossi in grado di stampare carrozzerie come francobolli e di rifornirci di vetture da comprare con gli spiccioli e da buttare magari dopo l’uso come bicchierini di carta; in questa era dei dinosauri dell’automobile, prospera – quasi per una di quelle anomalie di cui è ricca anche la natura – un nuovo tipo di artigianato, quello delle macchine fatte a mano, come le scarpe e le tagliatelle di una volta: modellate, limate, saldate, lustrate una per una.

Un fenomeno di cui si potrebbero tentare varie interpretazioni sociali, di costume; un fenomeno che potrebbe anche farci parlare di «ritorno alla macchina-individuo, come reazione alla motorizzazione di massa» con suggestivi richiami all’alienazione, alla psicanalisi e ad altri temi del nostro tempo. Ci sembra però che il modo migliore di illustrare questo fenomeno sia quello di analizzarlo, di parlare di queste piccole botteghe che curiosamente sopravvivono fra i supermarkets delle quattro ruote.

Dietro ciascuna di queste ditte – specializzate in piccole produzioni come certe case di champagne – ci sono altrettante storie. E sono storie di vecchie, radicate passioni, o di ambizioni recenti o di hobbies favolosi. C’è chi fa motori e telai con le sue mani (e con quelle di pochi fedelissimi) quasi in una sorta di trasporto mistico. In Emilia questo culto del motore, non come mezzo ma come fine, ha un che di casalingo, patriarcale, ricorda un po’ l’attaccamento che i contadini avevano un tempo per la terra. […]

C’è chi invece non s’è mai occupato d’automobili e se ne occupa oggi perché ha soldi da spendere. Gli storici del costume potranno scrivere che nell’Italia degli anni sessanta, accanto ai magnati che cercavano dopo la potenza economica anche la fama, finanziando o presiedendo squadre di calcio, fecero la loro comparsa altri individui che si misero a finanziare «granturismo». Lo yacht, la villa con piscina, l’executive bimotore per il week end alle Baleari scompaiono di fronte a questa nuova conquista sociale: la macchina come blasone, la macchina che porta il proprio nome sul radiatore.

V’è pure chi il proprio nome lo vede impresso da decenni a nobilitare superbi bolidi a quattro ruote costruiti da… altri. Cominciamo proprio da loro, i fratelli Maserati che, dopo avere creato dal nulla la «Casa del Tridente», la cedettero nel 1937 ad Adolfo e Omer Orsi, restando essi pure nell’azienda con un accordo di collaborazione tecnica che un paio di lustri più tardi fu revocato. I fratelli Maserati ripartirono allora da zero mettendo in piedi una nuova piccola fabbrica, la OSCA, che ha tuttora la sua sede e le sue officine poco oltre la periferia bolognese, a San Lazzaro di Savena, ove la via Emilia si libera dalla stretta dell’abitato per puntare diritta verso i chiari orizzonti di Romagna.

Gli Orsi, dal canto loro, rimangono tuttora al timone dell’antica azienda (il cui glorioso nome mai hanno voluto mutare) che rilevarono alla vigilia della guerra, antesignani – essi, industriali del ferro – di una tendenza che ha avuto, attraverso gli anni, numerosi epigoni. La Maserati è tuttavia un complesso che ha da tempo varcato i limiti artigianali e che, pertanto, ai fini della nostra indagine, ha il valore di pur cospicuo punto di riferimento […].

Il caso dei fratelli Maserati è, a tale proposito, particolarmente significativo.

Alfieri, Carlo, Ettore, Bindo, Ernesto Maserati: una stirpe di meccanici-piloti, divenuti costruttori di macchine leggendarie che nel ventennio fra le due guerre mondiali affiancarono il loro nome a quello dei protagonisti di alcune fra le più alte gesta dello sport del motore. Furono, dunque, sulla cresta dell’onda, come si suol dire, ma non seppero o, più esattamente, non vollero industrializzarsi come ancora oggi, scomparsi da molti anni Alfieri e Carlo, i tre continuatori dell’antica tradizione vanno ripetendo, con una sorta di fiero, patetico compiacimento: «Non siamo, né siamo mai stati, industriali».

Di qui, alla concezione della tecnica costruttiva come fatto poetico (l’arte della meccanica) il passo è estremamente breve. Ma il mercato, ahimè, ha leggi spietate al cui rigore nemmeno i poeti sembrano potersi sottrarre. I fratelli Maserati infatti hanno resistito per anni alla guida della piccola grande OSCA, inventando alcune vetture le cui sensazionali prestazioni vivono ancora nel ricordo degli sportivi di tutto il mondo (citiamo, per tutte, la 1100 con cui Stirling Moss riuscì a vincere la «12 Ore» di Sebring) ma, proprio pochi mesi fa, hanno dovuto cercare un appoggio. E l’hanno trovato nella «mv», la famosa industria motociclistica dei conti Agusta, un’altra impresa che fra qualche tempo potrebbe formare oggetto di inchieste del tipo di quella di cui ci stiamo occupando: s’è già parlato, infatti, della possibile realizzazione di una OSCA-MV.

Al filone dei costruttori per vocazione si deve ricondurre senz’ombra di dubbio anche Alejandro de Tomaso, un argentino piovuto in Europa una decina d’anni addietro e trapiantato in quella autentica capitale italiana (e non solo italiana) dell’automobile d’alto lignaggio (granturismo, sport, corsa) che è Modena. De Tomaso, rampollo bohémien di una delle famiglie più in vista nella Buenos Aires «mecca» dell’impero di Juan Perón (suo padre, un eminente uomo politico, morì trentottenne), per un po’ di tempo giocò al gaucho, allevando bestiame nella pampa e marchiandolo con la lettera «T» (la stessa che spicca oggi nello stemma delle sue vetture). Dalla prateria all’officina il salto fu meno difficile di quanto si potrebbe supporre, e facilissimo fu quello dall’officina all’autodromo. Le corse, questi giganteschi trattati di esperienza meccanica, lo ricondussero poi al laboratorio, con in testa una miniera di idee.

Tra i primi a intuire le rivoluzionarie possibilità delle strutture portanti, a studiare a fondo i riflessi aerodinamici delle profilature, ad assimilare le fondamentali conquiste dell’industria metallurgica britannica nel campo delle leghe leggere, Alejandro de Tomaso filtrò un’enorme esperienza tecnica attraverso la propria geniale sensibilità e progettò uno dopo l’altro tutta una serie di prototipi di diverse caratteristiche […]. Dalla vulcanica attività di de Tomaso sono scaturite decine e decine di «novità», molte delle quali, per altro, destinate ad entrare a far parte della storia dell’automobilismo […]. Lo spider «Vallelunga» (una vettura sport di 1500 cc.), dopo parecchi mesi dalla «nascita» vive ancora in una specie di incubazione, ma il telaio della medesima automobile è esposto al Museo d’Arte Moderna di Torino […].

«ISO» e «ASA», due sigle brevi e assonanti dietro cui si celano altre due singolari vicende dell’industria automobilistica minore. La iso è una fabbrica di proprietà di magnati milanesi dell’industria tessile (i Rivolta) i quali, dopo avervi impiegato cospicui capitali per la costruzione di scooters e motoveicoli, hanno recentemente esteso la produzione al settore automobilistico.

È nata, così, la ISO-Rivolta, una vettura da granturismo in cui la potenza del motore (uno Chevrolet di oltre cinque litri di cilindrata) e le proporzioni «americane» del telaio sono armonizzate dalla carrozzeria di morbido stile italiano disegnata da Bertone, il quale più recentemente, sul medesimo telaio, ha realizzato altresì la versione «Grifo», uno stupendo spider di linea aggressiva. La ISO-Rivolta ha già fatto anche la propria comparsa nel mondo delle corse, con un prototipo messo a punto dall’ingegner Giotto Bizzarrini (un grande specialista di macchine da competizione) e affidato a clienti-piloti che non mancheranno di farne valere quanto prima le doti.

Quanto all’ASA, il discorso è alquanto più complesso. Sullo scorcio degli anni cinquanta si fece un gran parlare di una vettura che Enzo Ferrari aveva in animo di creare, una vettura che si sarebbe dovuta nettamente distinguere da tutta la sua produzione precedente e che avrebbe dovuto costituire, in pratica, la «utilitaria delle granturismo». Ferrari concepì, realizzò e presentò alla stampa specializzata un motore di 854 cc., un autentico gioiello che riscosse incondizionati consensi e ammirazione. Fiumi d’inchiostro scorsero su quella che sarebbe stata la «Ferrarina», ma questa vettura non vide mai la luce. Due anni fa si seppe che il brevetto del motore era stato ceduto a una società milanese di recente costituzione, l’asa Automobili di Oronzo De Nora, uno dei «re» dell’industria metallurgica nazionale, il quale mise a capo della nuova azienda il figlio Nicola. Il motore fu maggiorato sino a un litro di cilindrata e fu montato su un telaio e una carrozzeria sperimentali. Accanto all’ASA sorse la Scuderia «Elmo d’Argento» che nutrì per un certo tempo grosse ambizioni agonistiche, ora purtroppo ridimensionate dall’impasse congiunturale. Dell’ASA, comunque, venne costruito egualmente anche un prototipo da competizione mentre, proprio recentissimamente, ha avuto inizio a Torino la costruzione delle carrozzerie della granturismo entrata finalmente in produzione. Si sa che la «veste» della vettura viene realizzata da Ellena e che il montaggio delle varie parti avverrà probabilmente a Modena.

Non a caso abbiamo riunito «ISO» e «ASA» in un unico «capitolo» del nostro discorso: ciò che ci preme sottolineare, infatti, è soprattutto l’analoga genesi di queste due imprese, vere e proprie filiazioni dirette di altre imprese industriali sotto l’impulso dei rispettivi titolari, cui la «scelta» del particolarissimo tipo di investimento deve essere stata suggerita non soltanto da considerazioni di carattere economico, ché grossi vantaggi non derivano di certo dalla produzione di auto in piccola serie. Si deve pensare che alla radice di siffatte iniziative vi siano altre «spinte» psicologiche che non è sempre agevole classificare e ricondurre ad un unico paradigma: ambizione, emulazione, hobby, moda, curiosità e, perché no?, una vaga e forse talora inconscia ansia di elevazione, magari non soltanto sociale.

A quest’ultimo stimolo, ad esempio, dev’essere stato tutt’altro che insensibile il più recente «arrivato» della motorizzazione ad alto livello. Ferruccio Lamborghini, Cavaliere del Lavoro, self-made man della più schietta specie padana, si costruì una grossa fortuna dando un impulso decisivo alla meccanizzazione della nostra agricoltura: trattori per la Sila e per la Brianza, per il Tavoliere e per le Langhe, per l’Irpinia e per la Valle del Tagliamento, trattori solidi, leggeri, veloci, trattori per tutti. Ma un bel giorno il germe della granturismo contagiò anche il cavalier Ferruccio, un po’ come era avvenuto in Gran Bretagna per Ferguson, al quale giustamente Lamborghini è stato paragonato.
«Ci faccio vedere io cosa ci vuole a fare una macchina!». Detto fatto. Le officine di Sant’Agata Bolognese si ampliarono e una piccola équipe di tecnici capeggiati dall’ingegnere Dall’Ara (un giovane assai dotato, cresciuto alla scuola della Ferrari) si misero allo studio: in capo a poco più di un anno la «Lamborghini 3500 GTV» era scodellata.

Linea e dimensioni decisamente yankee e motore in proporzione: un 12 cilindri di potenza smisurata che al Salone di Torino dello scorso autunno, ove la vettura fu esposta, suscitò ammirazione non solo epidermica, se è vero, come è vero, che parecchi esemplari vennero in seguito commissionati dagli Stati Uniti alla esordiente car-factory italiana. Un motore così, è un peccato tenerlo in naftalina, dissero al cavalier Ferruccio: perché non provarlo in qualche corsa? Ma il cavaliere fu irremovibile: prima i cento esemplari (tanti ne devono essere prodotti in un anno per ottenere l’omologazione nella categoria granturismo, altrimenti la vettura continua a far parte dei «prototipi»), poi si vedrà. Una saggezza esemplare, non c’è che dire, veramente «a prova di congiuntura», e molte probabilità di centrare ben presto il primo grande obiettivo.

Un cammino diametralmente opposto ha seguito invece l’ats, ultima (e non ultima) fra le giovani industrie automobilistiche minori che abbiamo preso in esame. L’ats, si può dire, nacque… di corsa e per la corsa. Punto di partenza, la Scuderia «sss Repubblica di Venezia» del conte Giovanni Volpi di Misurata, un’istituzione sportiva giovane come il suo mecenate, che nel giro di alcune stagioni agonistiche offrì ai migliori fra i conduttori italiani delle ultime leve la possibilità di misurarsi e perfezionarsi alla guida di vetture di cui ben difficilmente avrebbero potuto disporre altrimenti.

Il giovane patrizio veneziano, però, era affascinato da un’idea più grande che aveva maturato nel fragore degli autodromi di cui era assiduo frequentatore, nei contatti con i più famosi piloti, con i tecnici, con gli organizzatori, con l’ambiente eccitato ed eccitante dei grandi premi internazionali. L’idea era, manco a dirlo, quella di costruire macchine da corsa. Già, perché comprarle, le macchine? La Scuderia «sss Repubblica di Venezia» avrebbe dovuto e potuto divenire autonoma in tutto e per tutto. L’ambizioso progetto, abbozzato nel 1961, prese decisamente corpo l’anno dopo. Al vertice dell’impresa, il conte Volpi fu affiancato da Giorgio Billi (un toscano che nel dopoguerra aveva accumulato una cospicua ricchezza brevettando una serie di ingegnosissime macchine per la tessitura delle calze) e da Jaime Ortiz-Patiño (nipote di Antenor Patiño, il «re dello stagno»). Billi divenne il presidente della «Serenissima Automobili», articolata su uno staff di cui entrarono a far parte alcuni fra i più noti tecnici e dirigenti della Ferrari, il cui passaggio in massa nelle file della nuovissima azienda destò notevole scalpore. […]

L’estate del 1962 vide la posa della prima pietra delle officine (che avrebbero avuto sede a Pontecchio Marconi, fra Bologna e Firenze, nella valle solcata dall’autostrada più bella del mondo) e l’inizio della costruzione della prima vettura, in altre officine, si capisce. L’autunno portò via brutalmente Ricardo Rodríguez, il giovanissimo pilota messicano della Ferrari al quale il conte Volpi era legato da affettuosa amicizia. Scosso profondamente dal tragico annuncio, Volpi rilasciò alla stampa tetre dichiarazioni («Noi li mandiamo a morire…» e simili) e poco dopo chiuse i battenti della Scuderia «sss Repubblica di Venezia» e si ritirò dalla Serenissima Automobili di cui Billi (dato che anche Patiño stava per allontanarsene) divenne in pratica l’unico proprietario.

L’impresa mutò la propria ragione sociale che divenne «Automobili Turismo Sport» (ats) e poco prima di Natale presentò il suo primo prodotto: una monoposto di Formula Uno ispirata a criteri d’avanguardia e realizzata in pochissimi mesi in una fabbrica che non esisteva. […]. Nei primi mesi del 1963 l’ats realizzò anche un prototipo di granturismo di 2500 cc. che presentò con successo al Salone di Ginevra. Indi, con la Formula Uno, dopo avere ingaggiato i piloti Phil Hill e Giancarlo Baghetti (altri due ex-ferraristi) cominciò a gareggiare nel campionato mondiale. La macchina – due esemplari alquanto modificati rispetto al modello «natalizio» – destò un’enorme curiosità al suo apparire sugli autodromi (Chiti aveva progettato e messo a punto alla Ferrari vetture che avevano vinto fior di titoli mondiali) ma in gara non diede mai i risultati sperati: Phil Hill riuscì a condurla al traguardo una sola volta (Monza, 11°), Baghetti mai.

Era una macchina nata di corsa, già l’abbiamo detto, che pagava sulle piste di tutto il mondo la sua messa a punto «astratta», avvenuta cioè in officina, al banco di prova: gettata allo sbaraglio nella competizione, era fatale che soccombesse inesorabilmente, danneggiata talora anche da circostanze incredibilmente sfortunate (esempio: le vetture viaggiano su un camion alla volta del Nürburgring; l’autista, vittima di un colpo di sonno, esce di strada e sfascia tutto). Ad ogni modo, alla fine del 1963, Billi cambiò decisamente indirizzo, abbandonando innanzitutto la Formula Uno. (Recentemente le macchine sono state cedute ad Alf Francis, il famoso «mago» del Walker Racing Team, la scuderia che fu di Stirling Moss.) Nello stabilimento di Pontecchio Marconi, ormai completato, si è dato finalmente inizio alla produzione della granturismo, un piacevole coupé carrozzato da Allemano: insomma dopo aver attaccato il carro un buon miglio davanti ai buoi, si è ricominciato daccapo, imboccando stavolta la strada maestra.

Di tutte le «storie» dell’industria automobilistica minore quella dell’ats è la più complessa per le molteplici vicende da cui è scaturita e che racchiudono tutti quei temi psicologici, oltre che tecnici ed economici, cui si è accennato all’inizio di questa indagine. Un’indagine che non pretende certo di aver offerto un panorama completo delle «botteghe» d’automobile di casa nostra; ma ci sembra che i casi esaminati offrano spunti sufficienti a valutare e capire il fenomeno […].

Da questo confluire di motivi diversi verso la medesima direzione, scaturisce una morale: che non si costruiscono automobili come frigoriferi, cucine o calzature. Chi si mette a fabbricare granturismo non bada troppo a ricerche di mercato o a bilanci, ma si butta in un’avventura in cui giocano più i sentimenti che le valutazioni economiche. Diciamo che fra i tanti rampolli del «miracolo» (ormai passato) si può annoverare questo nuovo hobby del rischio non calcolato, o meglio, calcolato sul metro della passione e dell’ambizione. E che qualcuna delle nostre attività creative non obbedisca freddamente al solito tornaconto, ma si affidi a questi slanci e a questi entusiasmi, è cosa che in definitiva rallegra e conforta. Sono queste amabili «follie», queste ribellioni individualistiche, che rendono meno allucinante il nostro tempo di supercolossi e di industrie-monstre.