«I diritti dell’uomo» o «Le città del mondo» sarà il titolo del romanzo ambientato in Sicilia a cui attualmente Vittorini lavora: siamo lieti di offrire ai nostri lettori alcune pagine inedite
[…] In quel treno viaggiavano, su una terza classe col corridoio in mezzo, l’uomo Gioacchino e la giovane Michela che all’alba erano partiti, felice lui, finalmente, e abbastanza serena anche lei, dalla stazioncina di Serradifalco.
«Alla faccia di chi ci vuol male», aveva continuato a dire l’uomo Gioachino mentre aspettavano per i biglietti, in coda con una folla di zolfatari, e poi mentre aspettavano, tra crocchi di zolfatari a conciliabolo, che l’accelerato di Girgenti spuntasse fuori, rosicchiatasi tutta la salita, dove si vedeva il disco ancora acceso nel celeste dell’aria. Egli lo aveva ripetuto, sul lento trenino operaio, ogni volta che gli era parso di avere un motivo di soddisfazione: quando il sole aveva ricoperto del suo primo sguardo gioioso il paesaggio di pietra che attraversavano; quando i sornioni zolfatari del loro scompartimento erano scesi a una fermata in campagna aperta lasciandoli a tu per tu come in un loro cocchio principesco; o quando Michela, frugato in un panierino di vimini che si teneva accanto, gli aveva messo dinanzi da spartire un pesceduovo e una forma di pane. «Allegra Michela», egli aveva anche soggiunto, dalla terza o quarta volta in poi, beato dello spettacolo che lei offriva di sé nella placidità imbambolata di com’era quel mattino, senza nulla di inquieto né di ironico. Non gli riusciva di farla sorridere, ma si contentava, e aveva finito per non ripetere altro che «allegra Michela», come, in effetti, se volesse ricordarle che era «allegra», e l’esortasse a conservarsi tale e a non cambiare più umore. Le mostrava le torrette in legno delle zolfare, e le ripeteva «allegra Michela». Le mostrava qua e là per la campagna di pietra la bocca affumicata d’un calcarone, e le ripeteva «allegra Michela». E persino se era il volo di un corvo che le mostrava, nero e blu nel sole, le ripeteva «allegra Michela».
Si era accalorato, a un certo punto, a parlare dei luoghi suoi, nel deserto montagnoso che era sopra a Capizzi, con le montagne che sono intorno come madri, una come una madre gravida del suo primo figlio, una dolce sposa, e una come una madre che ha già avuto un figlio e ne aspetta un secondo, una come una madre che ha già avuto una caterva di figli e ne aspetta ancora uno, e altre come madri ormai vecchie e flosce, o vecchie e rinsecchite, ma che sono pur sempre madri. Le alture che passavano ai lati del treno verso Caltanissetta avevano cominciato ad avere pendii che tondeggiavano, spalle che tondeggiavano, ed egli aveva indicato, nel piccolo che esse erano, il grande che c’era dalle parti sue. Aveva detto che doveva essere splendido, lassù, in un giorno simile. I boschi in bocca ai valloni, con un tempo così bello, diventavano azzurri; le lente curve di pietra diventavano lisce e morbide, e anche rilucevano; per di più, a quel periodo dell’anno, c’era verde che nasceva lungo tutto l’orlo della neve e tra la neve stessa finché si avevano le cime coperte di una neve verde invece della bianca. Allora la solitudine, aveva detto, uno la sentiva che gli allargava il cuore; e aveva ripetuto «allegra Michela» vantandole come qualcosa che le permettesse, e anzi le offrisse, le porgesse, il piacere che si provava, con un tempo così, ad andare avanti e indietro per le proprie faccende tra il campo delle fave e i boschi e la fossa del carbone sapendosi lontano di cinquanta chilometri da ogni posto abitato e ogni strada, con la possibilità di vedere una faina al ruscello o un’aquila in cielo più facilmente che un uomo. «Allegra Michela», aveva continuato a ripetere, «allegra Michela», come se stesse spiegandole i motivi per i quali accadeva che lei fosse allegra, e le aveva anche detto della casa nuova ch’egli si era fabbricata, metà nella roccia e metà fuori, al fianco della casa vecchia, ma vasta il doppio e con in più una finestra, per abitarla il giorno che si fosse ammogliato. «Allegra Michela», aveva ripetuto, e aveva riflettuto, aveva riflettuto, si era alzato e aveva riflettuto, s’era riseduto e aveva riflettuto, e s’era affacciato dal treno fermo al disco di Caltanissetta e aveva riflettuto, e aveva sorriso e riflettuto, riso e riflettuto, e le aveva infine chiesto se sapeva che cosa avrebbero fatto. Sapeva che cosa? «Noi a Caltanissetta» le aveva detto «non ce ne andiamo in giro per la città e non andiamo in un albergo. Noi prendiamo il primo treno che parte per Enna, e non per scendere a Enna, ma per scendere dopo Enna, a Pirato, dove ci sono le corriere per Nicosia e per Agira. D’accordo?»
«Come volete voi» gli aveva risposto Michela.
«E dalla corriera per Nicosia» egli aveva continuato «noi non scendiamo che a Nicosia stessa, dove possiamo prendere la corriera che va a Capizzi o quella che va a Cerami, e poi in un giorno di cammino a piedi, da Cerami o da Capizzi, andarcene per le serre dei monti fino a casa. Noi ce ne andiamo dritto a casa» aveva gridato. «Allegra Michela! Noi ci mettiamo sulla strada di casa, e ce ne andiamo a casa»
«Come volete voi» aveva ripetuto Michela.
Ma sul treno diretto che la signora delle Madonie ora seguiva in corsa, con il suo cannocchiale a levante, dalla stazione di Santa Caterina Xirbi, l’uomo Gioacchino viaggiava senza più dire «allegra Michela», e Michela con un’aria non più placida e imbambolata come al mattino ma che sembrava ridiventasse, come a Serradifalco e prima di Serradifalco, interrogativa e ironica.
Il treno era non meno lento di quello operaio che li aveva portati a Caltanissetta; se non si fermava nelle stazioni si fermava, e a lungo, dinanzi ai dischi loro o a metà d’un tratto in riparazione; ed era vociante di folla nei suoi otto vagoni di terza classe e anche nei tre di seconda e prima; e l’uomo Gioacchino doveva stare in piedi curvo su Michela seduta, a cercare di proteggerla, da un’onda accaldata di gente che tendeva ogni poco ad abbattersi proprio verso di lei.
«Copriti» sussurrava l’uomo Gioacchino nell’orecchio di Michela. E si guardava intorno tra le facce lucide della ressa, guardava brusco i giovinastri nel nero taglio degli occhi esilarati, nel loro ammicco stesso, e stringeva con le gambe le gambe di Michela. Il viso gli si allungava, gli si ispessiva di tristezza sempre un po’ di più, e un pensiero glielo annebbiava. Egli impallidiva e poi subito arrossiva. Era come se lottasse contro una paura, e carezzava Michela sulla testa, ma trovava i suoi capelli invece dello scialle sotto le dita, e di nuovo si piegava vicino al suo orecchio e le ripeteva: «Ma t’ho detto di coprirti, Michela!».
Fu l’una, fu l’una e un quarto, passò la stazione di Villarosa, e nessuno nello scompartimento aveva potuto tirar fuori il panierino delle provviste e rifocillarsi. Era a sento se qualcuno, qua e là, riusciva a strappare un sorso da una bottiglia. All’una e mezza l’uomo Gioacchino ripeté a Michela: «Ma la faccia copriti!». Michela era solo «sis» che ormai gli rispondeva. Di nuovo. Per non dire semplicemente «sì» o «sì, Gioacchino», e insieme per non dire «sissignore». Oppure «nonz». Per non dire semplicemente «no» e insieme per non dire «nossignore». L’uomo Gioacchino le chiedeva se avesse fame, e Michela rispondeva «nonz». L’uomo Gioacchino le chiedeva se avesse sete, e Michela rispondeva «nonz». Questo era lo stesso che se avesse sollevato il viso a guardarlo con tutta l’inquietudine e ironia di cui erano capaci suoi occhi azzurri. E mentre passavano, forse alle due, sotto il breve tunnel ch’è poco prima di Enna, l’uomo Gioacchino le disse: «Appena ci si ferma scendiamo»; e le disse: «Preparati»; e afferrò nel buio i due fagotti ch’erano nel nella rastrelliera.