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Dell’automobile

L’automobile, nata col secolo, si inserì nello strumentale meccanico della nostra vita durante il primo decennio di esso. Re Vittorio comperò la sua prima automobile nel 1901. A Milano, circolavano alcuni taxi nel 1902, fra migliaia di gambe di cavalli, e carrozze lucidissime con fanaliere di cristallo molato. Sulle strade foranee, non asfaltate, le macchine spinte a 40 all’ora sollevano «nembi di polvere» come gli dei dell’Olimpo quando discendevano nella Troade in soccorso dei rispettivi protetti. Paul Morand nel suo rapido saggio «Mille Neufcent» (anno 1900) riserva all’automobile alcune vivacissime note, non meno che al guidatore, ai proprietari, o agli utenti. Guidare una macchina al Bois de Boulogne a 25 all’ora, col motore al posto della quinta ruota, faceva molto Principe di Galles. Un pelliccione da orango, dei guantoni da esploratore polare, un berrettone a visiera incerata da ammiraglio polare, degli occhiali da ghiacciaio, un plaid sulle ginocchia a disegno scozzese insignivano allora il guidatore.

In Italia lo si chiamò chauffeur, che in francese vuol dire fuochista, l’aiuto del macchinista. Molti anni più tardi il genio poetico-filologico di colui che guidò l’Italia a ramengo, in un impeto di filologismo autarchico, deliberatosi a forbir la lingua dagli odiati gallicismi (ma il gallicismo era un nostro errore di francese), coniò il vocabolo autista. Lì per lì mi misi a letto dalla rabbia, poi a poco a poco mi passò la rabbia. Oggi… dico e scrivo autista come niente fosse: come scrivo macchinista, flautista.

La prima delle due guerrone mondiali accelerò il processo d’inserimento dell’automobile nella vita europea e credo anche nella giapponese e nella sudamericana cittadina. Per «los caminos» e «las carreteras» delle pampas, dal fondo di terra bruna o rossa, filava meglio il cavallo. Nell’Europa in guerra i servizi logistici dimenticarono a poco a poco i loro denutriti cavalli, o cavalle, secondo le chiamava Ugo Foscolo, e si rifecero all’automobile, ai «camions» autarchicamente autocarri. Per il Tonale e per il monte Grappa seguitarono a volerci i muli però. La guerra del quindici-diciotto richiese un consumo enorme di proietti. A cose fatte, come sempre, si fecero i conti, si calcolò che per conquistare un monte s’era dovuto sparare mezzo milione di schioppettate e ottomila settecento cannonate, di cui quaranta di grosso e grossissimo calibro. Alcuni proietti da 381 rimasero inesplosi nella cava di ghiaietto del Fàiti, insieme ad alcuni loro colleghi austriaci da 420. Per trasportare a piè d’opera codesti enormi salami repleti di tritolo che facevano accapponar la pelle al solo vederli, non bastarono gli equini.

Il trasporto si effettuò con autocarri: ed egualmente l’approdo delle pagnotte e delle scatolette, il traino delle artiglierie, il «rifornimento d’uomini», l’arroccamento dei generali. Nel cervello umano, sempre fertile di idee sempre nuove, germogliò a poco a poco l’idea che al vecchio «patatruk» di Re Carlo e Re Vittorio, al fante e al geniere di Goito e di San Martino, si potesse e però dovesse a poco a poco sostituire un fante autotrasportato, un reggimento autotrasportato: una divisione motorizzata.

Dunque centinaia e migliaia d’autocarri, e d’automobili. All’antico generale col pennacchio bianco che cavalcava il suo caval sauro bardato con una pelle di pantera, succedette a poco a poco il generale moderno in divisa di autista. In Italia, non c’è bisogno di ricordarlo, l’industria dell’automobile si sviluppò nella vecchia capitale dei fanti di Goito e di San Martino; ma anche in altre città, del resto. A riassumere la storia di questa industria bisognerebbe un volume: l’industria stessa potrebbe curarne l’approntamento, compensando lo storiografo.

Oggi l’automobile è quel che è: serve a quel che serve. È inutile decantarvi ciò che avete sotto gli occhi. Alle vecchie stalle si sono sostituiti i garages, i boxes: autarchicamente rimesse. Al tepido e vitale profumo delle stalle, ai nugoli di zanzare che le attorniavano, le igieniche, certo, ma rabbiose cateratte delle saracinesche dei boxes: dalle cinque di mattina alle tre e mezzo della notte successiva. Gli architetti razionali, funzionali, non hanno potuto non inserire nell’elenco (delle ragioni e funzioni della casa) il precipitare delle saracinesche dei boxes. Funzione per funzione, è ovvio che ogni automobile debba avere il suo box, come ogni marito ha una moglie; per quanto si conoscano oggi, sotto il cielo di Roma, delle mandre di automobili allo stato brado che pernottano e svernano all’addiaccio. No, neanche il solstizio d’inverno ha trovato per loro un alloggio, un capanno periferico.

[…] Ma di tanto in tanto la polizia ne ripesca sei o sette a otto chilometri di distanza dall’abituale parcheggio, le riconsegna ai proprietari con le maniglie scassate, e con in meno le valigie che c’eran dentro: la grossa valigia di coccodrillo satura di biancheria fine e di smeraldi, di macchine fotografiche e di dollari del Canadá. Altre macchine, lo sapete meglio di me, vengono rubate «provvisoriamente» per andare a rubare. Rubarle per tenersele o per rivenderle non franca la spesa: la marca, la forma, il colore, i cuscini, la matricola del motore, la targa, il libretto di circolazione, il nuovo pieno di benzina per cui mancano i baiocchi. E poi la polizia vi pianterebbe una di quelle grane che non finiscan più, o meglio finiscano con due anni d’accertamenti istruttori del giudice e tre di carcere, di cui otto condonati, questo è vero. Poiché c’è questo dì buono a favore dell’automobile rubata: che il buon cuore pubblico, non disponendo delle galere sufficienti (a tenerci tutti gli inquilini meritevoli d’alloggio) parte dal punto di vista squisitamente attuale del recupero e del re-inserimento. Recuperare il ladro alla società dei derubati e re-inserirlo in circolo: nel circolo dei più preziosi valori sociali, tra cui le automobili in circolazione figurano al primo posto. […]

Ma lo scopo, il fine, di questo mezzo non è quello solo di trasportare bombe e bombarde in tempo di guerra e di spingere il nostro senso sociale ad esercitare il recupero di rapinatori e dei grassatori in tempo di pace: oh! no. C’è anche l’altro, il fine legittimo e direi santo, di motorizzare il lavoro quotidiano, di sveltire ed espedire i commerci, i trasferimenti di persone e di derrate, i viaggi a scopo archeologico ed esplorativo, i pellegrinaggi dei devoti al luogo della loro particolare devozione, le gite del popolo, gli sterri e i trasporti di terra necessari ad aprir le strade ove il mezzo stesso abbia poi a poter correre a tutto gas.

Nella vita civile di oggi l’utilitaria piccolo-borghese o la borghese media 1100-1500, così come l’autobus delle linee urbane e suburbane, risultano indispensabili: alla vita del professionista, dell’agente di commercio, del funzionario, alla vita del popolo lavoratore, ai servizi del soccorso pubblico: pompieri, croce rossa, polizia. L’estendersi e il moltiplicarsi dei «nuclei urbani», dei «centri residenziali», delle «città giardino», delle «abitazioni di bonifica», rende più che mai necessario il nuovo strumento della locomozione privata, oltre che della pubblica. Lo scrittore, quando scrive, è seduto; e in quel momento non ha bisogno d’automobile: essa gli serve per la ricognizione del paese.

A Roma, oggi, senza la macchina è difficile vivere: ed io vivo difficilmente. Con le macchine degli altri, è difficile applicarsi a leggere, a studiare, a dormire. Tutte le notti alle tre vengo svegliato, dopo essermi coricato alla luce, dall’avviamento di un motore sotto la funzional finestra della mia abitazione razionale. Immagino che si tratti di uno «che guida», e lascio a voi di immaginare perché parte dal Vascello tutte le notti alle tre per andare a nanna a Città Giardino.

Non voglio amareggiarvi, né amareggiarmi l’anima con richiamare gli «inconvenienti» stradali […]. No, non voglio rattristarmi, né rattristare. Da quell’ottimista che mi studio di essere, credente, oh, sì credente in un miglior domani, darò forma di preghiera e di scongiuro «costruttivo» agli acerbi risultamenti statistici. E con animo fraterno dirò: siate cauti, vale a dire onesti e civili nell’usare e nell’usufruire della vostra indispensabile automobile: ricordatevi che ci sono anche gli altri, al mondo: non intestatevi a sorpassare in curva, a sorpassare in salita rettilinea con orizzonte di cielo, discendere dal Moncenisio o dallo Stelvio, tagliando ai tornanti, per il gusto di catapultarvi nell’abisso incastrati nel cofano di chi vi viene incontro. Quanto agli eccessi di velocità, potete ritenere che la velocità raggiungibile non è funzione esclusiva del vostro merito, cioè della vostra perizia nel guidare e del vostro coraggio. È una funzione a più variabili, a molte variabili: dalle condizioni della strada alla disciplina civile dell’ambiente, dal tempo che fa, dalla luce che avete e non avete negli occhi, alla probabilità statistica di incontrare o non incontrare un ostacolo, o un guidatore vostro pari in senso opposto. Non giocate come bambini coi passaggi a livello, massime se recate al di là della via ferrata un carico di bidoni di benzina o di bombe di ossigeno. Quando poi voleste procurarvi l’onore di avermi a bordo, vedete allora di non superare in alcun modo i 30, in città, né i 40-50 «lungo la via che tra gli alberi suburbana verdeggia»; quei 40-50 che soli si addicono al prezioso carico… da voi tanto gentilmente imbarcato.