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Il vulcano in fiore

Tutt’intorno all’Etna la gente vive in paesi che hanno conosciuto nei secoli la rovina e il dolore, e che ogni volta hanno ricominciato a vivere. La lotta col gigante è fatta di pazienza e di forza, e si ripete giorno per giorno in un gran teatro dove rocce e abissi di basalto si mescolano ai boschi di castagni e di pini, e dove gli uliveti, le vigne, i giardini di aranci addolciscono il colore cupo della lava.

 

Un cratere nei pressi del rifugio Sapienza. Di crateri se ne contano a centinaia lungo le pendici dell’Etna. Molti, come questo, sono aridi coni coperti di lava, attraversati a volte da sentieri su cui si inerpicano, col fiato grosso, gruppetti di turisti. Altri, col passare dei secoli sono diventati conche fertilissime folte d’alberi e di verzura.

La lava è una materia prima molto sfruttata nella zona. Se ne lastricano le strade delle città, se ne tagliano blocchi per costruire case e palazzi, la si setaccia per farne malta. Ecco alcuni «azzolatori» intenti, appunto, a questo lavoro: dalla lava setacciata si ricava una sabbia, chiamata «azzolo» che sostituisce la normale rena per la preparazione della calce e del cemento. Un villaggio in pietra lavica nei dintorni di Randazzo. La gente della regione etnea vive con rassegnata tranquillità all’ombra minacciosa del vulcano. A memoria d’uomo l’Etna s’è «svegliata» almeno centotrentacinque volte, distruggendo paesi e borgate, cancellando strade, vigne e agrumeti. Ma c’è in molta gente di qui una convinzione consolante: si dice che il vulcano non colpisca due volte lo stesso villaggio. La consolazione vale, si capisce, per i villaggi già toccati dall’ira della montagna. Che sono molti.

[…] Ci vogliono anni a centinaia perché la lava, «lavorata» dal sole, dal vento, dalla pioggia, diventi fertile. L’apparire della ginestra e dei fichidindia è il primo timido segno del miracolo. Allora i contadini si mettono al lavoro e riconquistano alacremente, palmo per palmo, la loro terra. Così rinascono gli uliveti, le vigne e gli splendidi giardini di aranci. […]

L’Etna mostra il suo volto più aspro: è un accavallarsi orrido di cime e di crateri, scuri di lava, brulli, macchiati qua e là soltanto da qualche ciuffo di ginestre. Ma già in qualche valle c’è il segno del risveglio: fioriscono i mandorli e i pistacchi. E più lontano le giovani faggete si arrampicano lungo il dorso scosceso del monte Maletto, della Nave, del monte Spagnolo, del monte Santa Maria. […]

I vini dell’Etna sono famosi: ce ne sono di forti, liquorosi e leggeri, da taglio e da bere così, rossi, rosé, gialli ambrati, gialli paglierini, verdognoli. Ci sono i vini che piacciono ai francesi e gli Schiller’s Weine che piacciono ai tedeschi. E tutti contengono molto ferro e lecitina: oltre che buoni, dunque, sono anche ricostituenti. […]

Il carnevale di Paternò è un appuntamento a cui è consigliabile non mancare: sia perché, fra maschere, carri, balli popolari, teatro dei pupi e cantastorie, c’è parecchio da stare allegri; sia perché Paternò, anche senza carnevale, ripaga il viaggio. C’è il poderoso castello normanno, una trentina di chiese, di cui alcune veramente belle, e ci sono i «giardini». Paternò è la capitale degli aranci: per centinaia di ettari è tutto un tappeto verde e folto in cui, da novembre a maggio, spiccano le macchie di colore dei frutti maturi. […]

Ogni anno, il 10 maggio, c’è grande festa a Trecastagni. Si onorano i tre martiri sant’Alfio, san Cirino e san Filadelfo. Migliaia di persone vengono da tutta la provincia: e c’è chi, in camicia e calzoncini, con una fascia rossa a tracolla, percorre a piedi scalzi i tredici chilometri da Catania al paese, con una pesante torcia sulle spalle e gridando ininterrottamente: viva sant’Alfio! Sono i «nudi». Poi, quando, verso mezzogiorno, le statue dei tre santi escono sul carro dal Santuario e cominciano a percorrere le strade del paese, i padri sollevano i bambini malati (ma anche quelli sani) perché bacino le statue e chiedano salute o altre grazie. Naturalmente sul piazzale del Santuario c’è anche una piccola fiera: si vendono maioliche di Caltagirone, tamburi, tamburelli, chitarre, e anche belle trecce di aglio nuovo. […]

Ci sono mari di lava sull’Etna, ma spesso il colore bruno cede al verde: intorno al vulcano, per valli e piane, si stendono anche molti boschi, fitti, alcuni vastissimi: castagni a Cassano, in val San Giacomo, sul monte Fior di Cosimo, querce nella Cerrita, pini e betulle nella Cubania e a Linguaglossa. Zafferana è fra i paesi che hanno il bosco subito fuori casa. E ha anche un’altra cosa, rara e quasi preziosa qui: molte buone sorgenti d’acqua. […] Nel cratere del vulcano i paesani non ci vanno. Ci vanno i turisti in cerca di emozioni, vestiti in modo avventuroso, silenziosi, dopo tanto salire, nel freddo dei tremila metri, di fronte alla sorgente di fuoco e di fumo. I paesani non vogliono guardare la grande bocca del gigante. Per loro l’Etna è «la montagna», addirittura «la nostra montagna». Ma è anche lava colore del ferro, roccioni e muraglie di basalto, è lava che d’improvviso comincia a sgorgare, lenta e fumante, da una crepa del monte e cammina implacabile, e nessuno può fermarla. I turisti osservano eccitati la montagna che sembra viva, pensano alla terribile fucina di Vulcano, a Polifemo innamorato di Galatea e geloso del pastorello Aci, a Polifemo accecato da Ulisse e vagante furioso sul monte. Pensano a tutte queste cose e poi ripartono per il Nord. Ma i paesani restano. Per questo non salgono sul cratere.