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Il mercato ai raggi X

Dopo il notevole sviluppo degli ultimi anni, le ricerche di mercato devono ora affrontare una serie di problemi nuovi: rapporti fra istituti di ricerca e aziende, costo delle indagini, interpretazione e utilizzazione dei dati, personale qualificato disponibile. Su tutti questi punti abbiamo intervistato alcuni specialisti del settore

 

Fu quattro anni fa che il pubblico italiano scoprì improvvisamente che lo si stava psicanalizzando in massa. Non fu un medico, a raccontarglielo: fu un libro di grande successo, «I persuasori occulti» di Vance Packard. Esso volgarizzava per la prima volta la scoperta delle «ricerche motivazionali» (motivational researches) o rm: un nuovo metodo d’indagine della personalità del consumatore che porta alla scoperta degli impulsi segreti (segreti spesso allo stesso individuo), dei motivi irrazionali – ma non per questo meno determinanti – che guidano il consumatore nelle sue scelte. Vance Packard parlava degli Stati Uniti. Ma un quotidiano milanese svolse una indagine a Milano e ne saltò fuori che le rm erano ormai al centro dell’interesse e dell’attività di tutti gli istituti italiani di sondaggio dell’opinione pubblica.

Sembrava, a quei tempi, che una pesante ipoteca gravasse sui metodi tradizionali di intervista del pubblico. Alcune ricerche avevano clamorosamente provato che motivi di prestigio sociale potevano influenzare grandemente le risposte degli intervistati e quindi anche la riuscita delle tecniche pubblicitarie che sul sondaggio sarebbero state elaborate.

Facciamo un esempio. Alla domanda: «Quale quotidiano legge?» pochissime persone avrebbero il coraggio di rispondere: «Nessuno», poiché la grande maggioranza pensa che sia socialmente prestigioso leggere un giornale o lasciar credere di leggerlo. La risposta sarebbe dunque falsata e, per ovvi motivi, accentrata sul quotidiano di maggior diffusione. Il ricercatore si troverebbe di fronte, alla fine del sondaggio, a un risultato che avrebbe soltanto una lontana parentela con la realtà: esso mostrerebbe una Italia di lettori accaniti, una tiratura eccezionalmente elevata del maggior quotidiano, un distacco definitivo fra questo e i concorrenti. Un’indagine del genere, condotta anni fa negli Stati Uniti, aveva portato a queste conclusioni: che milioni di americani delle classi più abbienti «leggevano» un mensile culturale (la cui tiratura, in realtà, non raggiungeva le 400 mila copie) mentre «pochissimi» leggevano i giornali a fumetti di cui si vendono milioni e milioni di copie alla settimana.

Il prestigio sociale non era che la più aperta delle «sofisticazioni». Ce n’erano altre che lo stesso intervistato, in buona fede, non avvertiva. Perché preferiva uno di due prodotti praticamente identici? Perché cambiava da un anno all’altro automobile se la nuova era – come rendimento e comfort – praticamente eguale alla vecchia? Domande le cui risposte interessavano grandemente, com’è ovvio, gli operatori economici; ma domande che dovevano avere risposte «vere». Le rm potevano fornirle, applicando alla massa le metodologie della psicanalisi: e scoprire così che, per esempio, il ricordo della madre proiettato su un appello pubblicitario poteva determinare il successo del prodotto reclamizzato mentre un oscuro senso di peccato poteva scaturire dalla linea troppo «libertina» di un’automobile sportiva.

Lo choc portato dalle rm negli istituti di ricerche di mercato fu notevole. Svolgendo l’inchiesta di cui sopra per il quotidiano milanese, parlai quattro anni fa con molti ricercatori: soprattutto alcuni dei più giovani – e oserei dire: dei meno seri – sembravano decretare la fine delle metodologie tradizionali e l’avvento delle rm come una rivoluzione di carattere essenziale. Dal canto suo, il pubblico (e non solo quello dei consumatori) sembrava affascinato dalle nuove terminologie e dalle possibilità che le nuove tecniche offrivano.

La ricerca di mercato, in Italia, usciva allora dalla fase dei precursori. Nell’immediato dopoguerra avevano operato sul mercato nazionale soltanto le diramazioni italiane di organizzazioni estere. Soltanto l’Istituto Doxa di Pierpaolo Luzzatto Fegiz, professore ordinario di Statistica all’università di Trieste, era stato fondato agli inizi del 1946, ma era entrato praticamente in azione assai più tardi. Le campagne pubblicitarie avevano continuato a essere programmate «a lume di naso». Poi, un po’ alla volta – e molto grazie ad alcune inchieste «politiche» della Doxa – il valore del sondaggio dell’opinione pubblica aveva cominciato a essere apprezzato; ma in modo rudimentale. Le grandi aziende che chiesero le prime ricerche di mercato pensavano che valesse la pena di effettuare queste indagini soltanto una tantum, per esempio ogni cinque anni.

Qual è la situazione a quattro anni di distanza? Andate al cinema e subite pazientemente la pioggia troppo fitta di cortometraggi pubblicitari. Prendetene due: quello della Pirelli e quello della Shell. Sono entrambi centrati sul motivo della sicurezza che i loro prodotti offrono all’automobilista; eppure, le differenze sono enormi. La Pirelli fa appello all’intelligenza dello spettatore, mostrando in sintesi a quali e quanti collaudi siano sottoposti i suoi pneumatici; la Shell preferisce parlare all’inconscio del consumatore; evoca per lui le immagini più gradevoli che il conformismo collega al concetto di sicurezza, di fiducia: le mani della mamma che aiutano il bambino nel suo compito, quelle dello sposo che infilano la «fede» al dito della donna, quelle del padre sulle spalle della bambina che tenta per la prima volta l’ebbrezza della velocità sul… triciclo. «Sicurezza – dice intanto una voce carezzevole – ecco ciò che vi dà in più la Shell!». E lo spettatore andrà a fare il «pieno» sulle ali dell’affettuosità.

Abbiamo scelto a caso due esempi per dimostrare che oggi le varie tecniche di pubblicità (e quindi di sondaggio dell’opinione pubblica, poiché le due organizzazioni sono sempre più strettamente collegate) convivono. Le ricerche tradizionali hanno accettato la lezione delle rm, ma non per questo sono tramontate. Si sono, piuttosto, affinate attraverso un’intensa elaborazione teorica, arricchite di un’esperienza preziosa; hanno rimosso gli inconvenienti che ne turbavano i risultati, soprattutto attuando un più specifico addestramento degli intervistatori; e conquistato nuovi strumenti: per esempio l’impiego del calcolatore elettronico che consente rilevazioni del tutto nuove. Le rm sono diventate una branca importante delle ricerche di mercato. Ne sono diventate parte integrante, non autonoma.

Ciò che invece è grandemente mutato negli ultimi anni è l’atteggiamento del produttore italiano nei confronti delle ricerche di mercato e il dilatarsi di questo nuovo settore professionale. Soltanto all’Associazione Italiana per gli Studi di Mercato risultano iscritti 643 soci, 64 dei quali sono organismi che hanno per attività precipua l’effettuazione di ricerche di mercato per conto terzi, o enti che eseguono ricerche di mercato per proprio conto.

[…] Naturalmente, «il produttore italiano» è una figura retorica. Non esiste. Esistono varie classi di produttori: grandi, medi, piccoli industriali. Tuttavia si può dire che almeno le prime due classi si siano mosse in questo campo con andamento uniforme, sia ricorrendo sempre maggiormente a consulenze esterne, sia attrezzando speciali reparti nell’ambito della propria organizzazione aziendale, sia – infine – in forma mista: servendosi cioè di organizzazioni specializzate per la rilevazione dei dati ed elaborando il materiale raccolto attraverso l’opera di un proprio staff ristretto e qualificato. Gli stessi Enti pubblici cominciano a mostrare grande interesse per le ricerche di mercato, soprattutto per i problemi connessi all’industrializzazione di alcune zone, allo sviluppo del turismo e così via.

Il «miracolo italiano» ha creato una situazione di mercato estremamente dinamica. L’imprenditore sa di non potersi riferire con tranquillità a dati raccolti anni prima; ha bisogno di verificarne costantemente la validità. In una sua nota a un’indagine compiuta da «Selezione dal Reader’s Digest», il professor Guglielmo Tagliacarne, presidente del Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana per gli Studi di Mercato e direttore dell’omonima rivista trimestrale, si è definito «a quotidiano contatto con un pubblico desideroso (vorrei dire affamato) di avere indicazioni quantitative, sia pure sommarie, su certi consumi, sul possesso di certi beni, sulla preferenza delle varie marche di prodotti, ecc.». Tutto ciò comporta, naturalmente, una serie di problemi, sui quali abbiamo intervistato alcuni specialisti del settore. C’è il problema dei rapporti fra istituti di ricerca e aziende, quello del costo delle indagini, quello dell’interpretazione e dell’utilizzazione dei dati; c’è, infine, il problema degli uomini.

[…] L’interpretazione e utilizzazione dei dati delle ricerche. Qui ci si scontra spesso con una certa comprensibile repulsione da parte delle aziende a dare al ricercatore informazioni dettagliate sulla propria politica e struttura aziendale. Eppure esse sono di grande importanza, sia per la corretta impostazione della ricerca che per una fruttuosa elaborazione dei risultati. «La ricerca è utile – dice la dottoressa Edoarda Sanna de La Rinascente – soltanto se impostata su obiettivi estremamente concreti e poi tradotta in applicazioni.» […] «Molti operatori italiani – nota Egidio Pio, della Lever Gibbs – non hanno ancora capito esattamente cosa possono ottenere da una ricerca di mercato. Ve ne sono di quelli che ne fanno per motivi di prestigio, perché è “di moda”. In altri casi, più frequenti, non c’è la capacità di utilizzare i dati raccolti per il conflitto che esiste tra i vari dirigenti di certe grandi aziende. La ricerca di mercato finisce per essere considerata valida soltanto dal gruppo che sosteneva a priori le idee che essa ha verificato…».

Il problema diventa quindi di uomini. Non soltanto di una classe dirigente aperta (ma con raziocinio) alle novità ma anche di staff qualificati, di ricercatori geniali e di «traduttori» aziendali. […]

E il pubblico, miniera e cavia, come si offre, in Italia, ai suoi inquisitori? Benissimo, meglio di così non potrebbe. Maria Visconti di Modrone, di «Selezione dal Reader’s Digest», ci mostra i dati dei sondaggi effettuati – per posta e per telefono – dal suo ufficio: le percentuali sono altissime, un minimo di inducement (l’offerta di un omaggio economicamente assai modesto ma «personalizzato») ha avuto risultati insperati.

Infine, particolare non di poco conto, dirò che le ricerche di mercato ci mostrano un’Italia avviata al matriarcato. «La donna – dice la dottoressa Sanna – è ormai diventata l’agente di commercio della famiglia. A eccezione di alcuni generi di consumo prettamente maschili (lamette per barba) o di grande costo (automobili), è la donna che in genere sceglie e acquista. Ed è pertanto alla donna che fanno capo le tecniche pubblicitarie, oggi. Si cerca di allettarla con i concorsi a premio (si spendono per questo 6 miliardi di lire ogni anno) e – assai più produttivamente, credo – con le raccolte di “buoni”. Si fa appello alla sua ansia di fortuna, la si considera affascinata dalla possibilità di “un miracolo”. In realtà, la donna italiana è una donna che ha sempre meno tempo da perdere e quindi gradisce una certa preselezione effettuata dai grandi magazzini; ma è una donna economa per cui al centro delle sue preoccupazioni è il rapporto fra prezzo e qualità. Infine, è una donna che desidera essere libera nella scelta dei suoi acquisti, che detesta essere apertamente influenzata dai commessi: la possibilità che taluni negozi le offrono, di servirsi da sola, le riesce gradita.» Non lo dicono anche i mariti che le donne, al giorno d’oggi, tendono a essere sempre più indipendenti?