L’emigrazione è stata ed è uno dei fenomeni più grossi dell’economia e della società italiana: dapprima principalmente come migrazione internazionale, poi anche – e in certe epoche recenti soprattutto – come migrazione interna; dapprima come fenomeno che muoveva da tutte le aree del paese poi, sempre più, come fenomeno che muove dal Sud e dalle montagne; generalmente come fenomeno che investiva soprattutto le classi contadine e i manovali, da ultimo però anche come fenomeno che riguarda una crescente aliquota di operai qualificati e di lavoratori del terziario.
Alla imponenza del fenomeno fa da singolare contrasto la scarsezza di strumenti di intervento, rivolti a considerarlo, sia sul piano internazionale come sul piano interno. Persino dal punto di vista statistico, questo fenomeno si presenta come mal conosciuto, perché le rilevazioni che lo riguardano sono molto approssimative.
[…] Si direbbe che, trattandosi di una «piaga», di un qualcosa che è considerato come patologico, anziché come normale, come fisiologico, vi è una sorta di ritegno a indagarlo troppo minutamente e a dettare per esso interventi troppo vistosi e sistematici; si direbbe che si preferisca, a volte, ignorarlo o lasciar supporre che vi saranno soluzioni radicali che elimineranno il fenomeno, piuttosto che considerarlo esplicitamente.
Ma bisogna intendersi: se il termine «migrazione» suona male ed evoca distacchi e lontananze dolorose, il termine «mobilità» delle forze lavoro e dei cittadini evoca, all’opposto, il senso di un diritto umano, di una effettiva liberazione dalla servitù della gleba e di una ampliata possibilità di scelta, nello sviluppo delle proprie capacità, dei propri interessi, delle prospettive della propria famiglia.
In termini sintetici, si può dire che l’obiettivo di fondo, per quanto riguarda l’emigrazione, non è di regolamentarla minuziosamente, imbrigliarla ed eliminarla, ma di trasformarla – via via – in mobilità del lavoro. È quasi un paradosso, ma l’Italia che è un paese, storicamente ed attualmente, caratterizzato da una fortissima emigrazione interna ed internazionale, è anche un paese a bassa mobilità del lavoro. Queste due caratteristiche dell’economia e della società italiana possono simultaneamente coesistere (anche se a tutta prima ciò potrebbe sembrare assurdo) – e tenacemente coesistere – perché se da un lato sono molti coloro che prendono la drammatica decisione di emigrare e anche molti coloro che rientrano, dopo un breve numero di anni, però il flusso è poco fluido, nella sua articolazione capillare e nella sua distribuzione. Sia l’esodo come il rientro tendono ad essere fatti traumatici, scelte drammatiche (a volte, più che di scelta, si deve parlare di azioni forzate, compiute in condizione di necessità), mentre non è agevole effettuare spostamenti normali, liberi. Si può fare l’analogia con certi fiumi dell’Africa, i quali nei periodi della piena esondano, con grandi inondazioni mentre poi, per il resto del tempo e delle condizioni, sono poveri di acqua e incapaci di alimentare il fabbisogno agricolo delle terre circostanti: sicché, in relazione ad essi, coesistono le due caratteristiche di grande ricchezza di acque che vengono spostate e di modestissima capacità di irrigazione.
L’analogia però non può essere perseguita troppo oltre, poiché diventerebbe fallace. Infatti nel caso della differenza tra migrazione e mobilità, non vi è solo l’aspetto della forzatura nel primo caso, in contrasto con la scelta oculata nel secondo. Vi è anche un altro aspetto: mentre la migrazione è tendenzialmente unidirezionale, la mobilità è bi-direzionale. […]
Ma veniamo al nostro tema soffermandoci, dapprima, sulla migrazione internazionale. Il primo punto, da considerare, sta nella insufficienza dei servizi di assistenza all’emigrazione nei luoghi d’origine. Questa assistenza compete istituzionalmente al ministero del Lavoro. Esso, in linea di principio, trasmette le richieste di manodopera che gli giungono dall’estero, ai vari Uffici provinciali del lavoro, dopo averle vagliate, per quanto riguarda il trattamento economico e le varie altre condizioni (qualifica richiesta, oneri previdenziali e fiscali, diritti assicurativi, ferie, ecc.). Questi, a loro volta, comunicano tali dati agli Uffici comunali che provvedono a dare pubblicità alle circolari in cui sono contenute le richieste in questione. I lavoratori interessati si sottopongono a visite sanitarie e a un controllo professionale; indi la loro richiesta viene inoltrata alla Commissione di selezione, che è formata di rappresentanti delle ditte estere che hanno fatto la richiesta o da Commissioni del lavoro estere, di natura più generale. Le persone la cui richiesta è accolta vengono aiutate dagli Uffici provinciali del lavoro nel disbrigo delle pratiche per ottenere i permessi di espatrio, e vengono dotate dei contratti di lavoro cui la loro assunzione si riferisce. Dopo di che partono alla volta del luogo di lavoro straniero. Qui finisce il servizio di assistenza all’emigrazione.
I risultati di questo congegno, per la verità, attualmente non sono molto lusinghieri. Come rileva il rapporto del cnel ricordato in precedenza, una parte considerevole degli emigranti preferisce andare a cercarsi all’estero il posto, per conto proprio, piuttosto che ricorrere ai canali ufficiali. […] La crisi del nostro servizio di collocamento e assistenza all’immigrazione non potrebbe esser più evidente.
[…] Quali le cause della profonda disfunzione dei nostri organi di collocamento, assistenze avviamento all’emigrazione? Secondo il ricordato rapporto del cnel uno dei maggiori motivi sta nel fatto che si tratta di organi burocratici, lenti, le cui procedure, nella loro distaccata ufficialità, allontanano l’emigrante, che, così, preferisce tentare l’avventura per conto proprio. Gli emigranti – a quanto sembra – ormai hanno scarsa fiducia in tali organi. Ma bisogna anche domandarsi se ciò che questi organi forniscono (a parte il modo come lo forniscono e i tempi) è veramente ciò che occorre agli emigranti. Innanzitutto, va detto che una aliquota di emigranti decide di recarsi all’estero non già perché abbia una soluzione precisa, ma perché ha la speranza di trovare, nell’altro paese, una buona sistemazione: non aspetta, dunque, di essere prescelto, procede di propria iniziativa e desidera andar sul posto per scegliere meglio. In periodi e paesi ad ampia domanda di lavoro, in verità, non è difficile a realizzare, in un modo o nell’altro, tale aspirazione. Gli organi di ausilio all’emigrazione, pur continuando nella loro particolare attività di collocamento in base a singole specifiche domande di addetti, dovrebbero anche – realisticamente – attrezzarsi per fornire assistenza a chi voglia recarsi all’estero senza necessariamente disporre di un contratto: funzionando da centri di informazione sulle prospettive generali di sistemazione che vi sono nei vari paesi, sui problemi che in essi si prospettano, sui metodi per effettuare i viaggi e così via.
[…] Un altro importante capitolo dell’assistenza all’emigrazione riguarda l’addestramento professionale. Indubbiamente questo problema presenta un aspetto delicato: perché mai l’Italia dovrebbe sopportare il costo di un addestramento, il cui risultato utile è usufruito dagli stranieri? E come realizzare tale addestramento in province a bassa industrializzazione, se in esse – per definizione – scarseggiano le imprese, ove esso (magari fuori orario) potrebbe essere efficacemente realizzato, mediante diretti, concreti contatti con le attrezzature produttive? Nell’ambito della cee il problema potrebbe forse essere risolto, facendo appello al Fondo sociale europeo.
Dopo l’addestramento, il collocamento e l’avviamento all’estero, vi dovrebbe essere una quarta fase, raccordata a quella dell’avviamento all’estero, consistente nell’assistenza nei luoghi di arrivo. Se i centri di assistenza agli emigrati fornissero loro le informazioni e i servizi con cui collegarli con centri di assistenza nel luogo di arrivo, il ricorso ad essi sarebbe verosimilmente assai più ampio. L’emigrato saprebbe che se si assoggetta a un certo controllo e a una certa trafila alla partenza, usufruisce anche del diritto ad essere aiutato, nelle sue pratiche nei suoi problemi, nel luogo di arrivo. Oggi questo servizio è svolto da un personale molto ridotto, presso le ambasciate e i gli uffici consolari. Occorrerebbe, invece, sviluppare centri esteri di accoglimento e prima assistenza agli immigrati. […]
Passiamo, ora, dunque, a un secondo aspetto: quello dell’inserimento nella comunità di immigrazione. È forse qui che, oggi, si riscontrano le carenze più gravi. Ma il problema differisce da paese a paese. In Europa, bisogna distinguere, a grandi linee, fra i paesi della cee e la Svizzera. I problemi maggiori riguardano la Svizzera. Infatti in questa nazione non esiste, a livello centrale, un ben sviluppato sistema di assicurazioni sociali o di sicurezza sociale. Una parte notevole è lasciata ai singoli Cantoni, gelosi della loro autonomia. Di questa carenza, chi più ne risente sono i lavoratori stranieri, che sono più esposti ai problemi della insicurezza del posto di lavoro e alle varie sopravvenienze rischiose, della vita di un lavoratore, anche perché non posseggono, come invece molti dei lavoratori svizzeri, dei risparmi personali, un’abitazione, una piccola proprietà, né hanno peso nella vita cantonale. Il problema più grave concerne la tutela nel caso di malattia. Non esistendo in Svizzera una assicurazione sociale contro le malattie a livello federale, i singoli Cantoni hanno, al riguardo, legislazioni variabili, spesso non obbligatorie. Anche quando vi sia una assicurazione obbligatoria contro le malattie, essa sovente non si estende automaticamente ai familiari; questi, così, rimangono privi di tale tutela. […]
Un’altra grossa fonte di discriminazioni per gli emigrati italiani in Svizzera deriva dalla clausola della limitazione dei benefici di varie forme di tutela previdenziale a favore dei soli dimoranti in Svizzera: ciò toglie a coloro che rimpatriano una parte considerevole dei benefici assicurativi accumulati. Ciò, innanzitutto, accade per la assicurazione contro la disoccupazione, il cui diritto viene automaticamente perso da chi rientra in Italia, anche se abbia lavorato in Svizzera un certo numero di anni. Un’altra discriminazione dello stesso tipo riguarda la assicurazione per la vecchiaia (che in Svizzera è strettamente collegata al numero di anni di lavoro prestati) […].
Problemi analoghi, anche se non identici, sorgono per la assicurazione contro le malattie professionali: a volte queste si manifestano chiaramente come tali solo a distanza di tempo. Ciò rende difficile l’accertamento dell’obbligo, per il paese in cui esse sono state causate, di pagare le indennità. Si sviluppano conflitti fra Italia e Svizzera circa l’onere di ciascuno dei due paesi, con il risultato che l’ex emigrato, spesso, deve attendere parecchio tempo e rischia di rimanere privo di tutela, magari egli è dovuto rientrare in Italia perché malato. […]
Nell’ambito dei paesi del MEC il problema della tutela assicurativa e dei diritti in genere dei nostri emigrati è, in gran parte, risolto. I lavoratori italiani sono pienamente equiparati, nei loro diritti, a quelli della nazione ospitante e hanno diritto, generalmente, alle prestazioni assicurative sociali di tale paese sia che vi permangano sia che tornino nel proprio o vadano in un terzo paese.
[…] I problemi più delicati, per i diritti previdenziali degli emigrati, nell’area MEC, sono quelli di coordinamento e di unificazione. Un lavoratore che abbia maturato diritti di pensione in diversi paesi del MEC attualmente ne usufruisce pro quota a carico delle assicurazioni sociali dei vari paesi del MEC in cui ha lavorato; ciò lo sottopone a procedure burocratiche complesse. Inoltre, sovente, i criteri per la determinazione delle malattie professionali, quelli per il pagamento per le prestazioni sanitarie, l’età di pensionamento, i sussidi di disoccupazione differiscono da paese a paese: anche ciò crea incertezza e complicazioni. Questo problema dovrebbe essere eliminato, è vero, con l’armonizzazione integrale dei sistemi di assicurazione e sicurezza sociale nella CEE. Ma non sempre i singoli paesi membri della CEE si muovono nella medesima direzione in tale materia: esistono diverse esigenze, diverse possibilità e diverse opzioni nazionali. È importante che si operi nel campo specifico della manodopera emigrata, per semplificare al massimo la varietà dei regimi che la riguardano e portarla al regime migliore. È possibile farlo, non solo mediante le convenzioni bilaterali, ma al più ampio livello comunitario, anche utilizzando il Fondo sociale europeo, per colmare certe discrepanze.
Nella CEE non esistono limitazioni alla mobilità di persone. Le famiglie possono dunque liberamente ricongiungersi al lavoratore immigrato, quando vogliono. Ciò però sul piano giuridico. In concreto, a ciò osta spesso il costo del trasferimento della famiglia e la difficoltà di trovare un alloggio. […] Tuttavia è noto che in Germania (come in Svizzera) sussistono dei pregiudizi (come del resto nell’Italia del Nord verso gli immigrati meridionali) che ostacolano particolarmente le famiglie emigrate. In aggiunta a ciò, vi sono talvolta provvidenze edilizie che vengono riservate ai connazionali. […] Il punto più delicato in fatto di alloggi però è quello degli alloggiamenti particolari predisposti dalle aziende, per la manodopera che viene dall’estero e che vive senza famiglia. Vi è spesso la tendenza a configurarli in un modo che, sia pure con notevoli differenze, ricorda i Lager; baraccamenti a fitta densità, con servizi igienici collettivi scarsi e sbrigativi; pochi servizi ricreativi, di ristoro, di ritrovo. Il problema si presenta oltreché in Germania anche in Svizzera. Dovrebbe competere alle autorità italiane preposte all’assistenza agli emigrati all’estero esercitare una attenta sorveglianza perché questi alloggi siano il più possibile decorosi, confortevoli, gradevoli, adatti alle esigenze dei nostri connazionali. I sindacati italiani e i rappresentanti sindacali degli emigrati potrebbero svolgere, in ciò, un lavoro efficace, se sostenuti dai nostri organi ufficiali. Occorre anche istituire centri di ritrovo, in luoghi diversi dagli alloggi. Questi del resto dovrebbero essere, il più possibile, sparpagliati e individualizzati, ad evitare l’immagine e la condizione sociologica della «segregazione» e della «massificazione» che umilia i lavoratori italiani all’estero. Attualmente di questi centri di ritrovo ve ne sono, a cura di autorità religiose cattoliche. Ma occorre agire sul piano ufficiale.
[…] Un importante capitolo dell’assistenza degli emigrati all’estero è quello dei programmi per loro da parte dei centri di informazione e cultura italiani: non esistono organi di stampa che ne trattino, specificamente, i problemi. […]
Infine il capitolo delle rimesse e dei risparmi degli emigrati. Vi è fondato motivo di ritenere che, per carenza nell’offerta di idonei canali di raccolta da parte del nostro paese, una parte notevole dei risparmi degli emigrati negli anni recenti sia andata a confluire nei Fondi di investimento internazionali. Naturalmente non vi è nulla da eccepire sulla scelta degli emigrati per un impiego di questo tipo, in confronto ad altri, qualora essi abbiano, veramente, diverse opzioni. Ma il fatto è che spesso l’unica altra alternativa è quella dell’acquisto – in modo ingenuo – di una terra o di un alloggio nel paese d’origine, ciò che, spesso, si risolve in uno spreco perché l’emigrante cade in balia di mediatori con pochi scrupoli, nella soddisfazione di un miraggio, più che nella effettuazione di un risparmio utile, facilmente mobilizzabile all’occorrenza. I grandi istituti finanziari italiani, invece, dovrebbero studiare delle forme di risparmio assicurativo, di risparmio-casa, di risparmio protetto da deprezzamento monetario, di risparmio protetto dalle variazioni del cambio, ecc., appositamente concepite per le esigenze degli emigrati: con una rete di raccolta idonea a raggiungerli, formule di investimento semplici e dotate delle più serie garanzie, elevata possibilità di frazionamento, facile trasferibilità e negoziabilità a corsi stabilizzati.
Per accrescere l’utilità di queste formule, si potrebbe stabilire che esse (o alcune di esse o elementi collaterali di esse) servano anche per il trasferimento delle rimesse, con idonea tutela riguardo alla fruizione del cambio più vantaggioso (spesso accade che, non esperti del cambio, gli emigrati, al rientro, convertano le valute estere nel luogo e nel momento in cui esso è meno favorevole).