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Tempo lavorato, tempo liberato

Il problema della durata del lavoro non sembra aver oggi molto perduto della importanza che ha presentato per oltre mezzo secolo, nonostante il cammino percorso dal 1919, quando la prima Convenzione Internazionale del Lavoro, adottata nella Conferenza di Washington, stabilì di limitare il tempo normalmente occupato negli stabilimenti industriali in 8 ore giornaliere e in 48 settimanali.

I termini del problema sono andati però via via modificandosi. Nel 1919, la giornata di 8 ore e la settimana di 48 costituivano da parecchi anni, nel quadro dell’azione rivendicativa dei lavoratori, uno degli obiettivi primari cui tendere, in quanto la legislazione della maggior parte degli Stati non aveva ancora predisposto norme intese a disciplinare la materia e, come conseguenza, durate normali del lavoro notevolmente prolungate erano da considerarsi per nulla eccezionali, con pregiudizio non di rado della stessa integrità fisica dei lavoratori.

Da allora, tuttavia, nella misura in cui l’accrescimento della produttività – a sua volta determinato dalla introduzione dei nuovi procedimenti tecnici, tecnologici ed organizzativi – consentiva la produzione di beni e servizi in quantità tale sia da elevare il tenore di vita di sempre crescenti popolazioni, sia da ridurre nel contempo la prestazione lavorativa, la legislazione e la contrattualistica hanno proceduto, per un complesso di motivi e di stimoli, ad abbassare sempre più i limiti entro i quali la durata del lavoro andava contenuta.

La riduzione dell’orario di lavoro disposta negli ultimi 50 anni nelle economie progredite può essere valutata da un minimo del 20% ad un massimo del 40% […]. Se dunque il problema della durata del lavoro trovava in passato il suo principale fondamento nella esigenza della tutela della salute del lavoratore, è certo che sotto questo profilo esso ha ormai da tempo cessato di sussistere […].

Tuttavia vanno acquistando sempre maggiore rilevanza altri motivi di carattere sociale – maggiormente legati alla personalità umana del lavoratore nelle sue esigenze, non solo come prestatore d’opera, ma anche come individuo, come componente di un nucleo familiare, come membro del corpo sociale nel cui contesto si muove – che fanno prospettare […] l’opportunità di una diversa e più razionale distribuzione del tempo occupato nel corso della giornata, della settimana e dell’anno.

[…] In questa sede si cercherà di affrontarlo considerando in particolare il mondo dell’industria, che rappresenta l’agente principale del progresso economico ed il settore dove il problema si pone in termini di maggior rilevanza, tenuto presente anche che esso comprende in Italia oltre il 40% delle forze di lavoro.

È noto che ogni diversa ripartizione del tempo occupato e del tempo libero può realizzarsi, alternativamente o contemporaneamente, seguendo tre diverse vie:

> con la riduzione della giornata lavorativa;

> con la riduzione della settimana lavorativa, attraverso la eliminazione in toto o in parte della sesta giornata di lavoro;

>con la riduzione del numero delle giornate lavorative nell’anno, mediante l’aumento delle ferie.

 

Nell’esperienza estera, il forte aumento del tempo libero reso possibile, soprattutto in questi ultimi anni, dai rapidi avanzamenti della tecnica, è stato realizzato operando lungo tutte le tre direttrici summenzionate, ma in particolare prolungando il riposo settimanale.

In genere, all’obiettivo della settimana di 40 ore – che rappresenta, a più o meno breve termine, la meta cui si tende in tutti i Paesi progrediti – è stato infatti quasi ovunque abbinato quello della settimana di 5 giorni con 8 ore di lavoro giornaliero.

Del resto, già parecchi sono i Paesi in cui la settimana di 40 ore ripartita su 5 giorni di lavoro risulta attuata per la quasi totalità dei prestatori d’opera (vedi usa, Australia, Canada e, recentemente, urss). È però sintomatico che in molti Paesi nei quali l’orario settimanale è ancora superiore alle 40 ore le riduzioni verificatesi si siano accompagnate ad aumenti della durata giornaliera in modo da permettere l’attuazione della settimana di 5 giorni […].

L’allungamento delle ferie non sembra invece trovare diffusa ed accentuata attuazione, anche se in questi ultimi tempi sono andate manifestandosi in Europa delle propensioni in tal senso, soprattutto nei settori in cui la settimana di 5 giorni è già una realtà. Queste tendenze sono più o meno chiaramente riscontrabili anche nel nostro Paese.

[…] Assistiamo nell’industria italiana ad una evoluzione verso una sempre più estesa attuazione della settimana di 5 giorni, specie per gli impiegati non direttamente legati al ciclo produttivo, la maggior parte dei quali ormai effettua la settimana corta con il sabato libero oltre la domenica, attraverso il prolungamento della durata giornaliera al di sopra delle 8 ore.

[…] Così le aziende, non a ciclo continuo, con lavorazioni distribuite su tre turni di lavoro hanno attuato le riduzioni di orario o accorciando i turni del sabato o, preferibilmente, mediante la concessione durante l’anno di corrispondenti giornate di riposo retribuito coincidenti, normalmente, con il sabato.
Dove invece le lavorazioni sono distribuite su uno o due turni, le riduzioni degli orari di lavoro sono state di solito attuate accorciando la durata della prestazione al sabato, ma diverse risultano le aziende che hanno adottato la settimana di 5 giorni prolungando l’orario giornaliero.
Per quanto riguarda, infine, le aziende a ciclo continuo, le riduzioni sono state attuate mediante la concessione nel corso dell’anno di giornate di riposo retribuito, usufruibili però, date le particolari esigenze tecnico-produttive, in giorni diversi della settimana. Gettando uno sguardo sugli altri settori, a parte la agricoltura dove la situazione presenta aspetti particolari dato il fondamentale legame con le vicende stagionali, si va parimenti assistendo ad una sempre maggiore estensione della settimana corta.
Nei servizi, infatti, mentre il personale di manodopera osserva orari di lavoro che non si discostano molto da quelli dell’industria, per il personale impiegatizio – che rappresenta, come è noto, la larga maggioranza degli addetti – è ormai generalizzata la settimana di 40 ore distribuite su 5 giorni (vedi le aziende di credito, gli enti previdenziali e assicurativi, le aziende telefoniche, gli enti esattoriali, ecc.), salvo il commercio, nel quale prevale l’orario di 44 ore settimanali, e la pubblica amministrazione, che continua a mantenere per la gran parte degli impiegati l’orario unico di 6 ore giornaliere e 36 settimanali, stabilito per motivi contingenti durante l’ultimo conflitto.

Questo breve esame della dinamica e della distribuzione del tempo occupato consente dunque di individuare un orientamento di fondo piuttosto marcato verso la progressiva estensione della settimana di 5 giorni con il sabato e la domenica liberi: la cosiddetta «settimana corta».

[…] I fattori condizionanti ogni diminuzione del tempo occupato sono numerosi, ma fondamentalmente possono essere ricondotti a due: l’evoluzione della produttività globale e la dinamica dell’offerta di lavoro. Per quanto riguarda il primo fattore, mentre per alcuni settori dell’industria italiana si può presumere che i futuri incrementi potranno lasciare margine a considerevoli riduzioni degli orari di lavoro, per altri – che rappresentano la maggioranza, soprattutto come numero di occupati – i possibili incrementi saranno probabilmente in grado di consentire solo riduzioni contenute, insufficienti a realizzare una integrale attuazione della settimana corta senza andare incontro a limitazioni nella formazione del risparmio aziendale e a conseguenti difficoltà negli investimenti […].

Va ricordato a questo proposito che, laddove gli incrementi di produttività si manifestano in misura rilevante, ciò lo si deve per gran parte alla introduzione di tecniche produttive che richiedono onerosi investimenti ed è noto che, d’altro lato, la nostra economia si lascia caratterizzare da una relativa scarsità di capitali, di cui l’alto costo del denaro è uno degli indici più espressivi.

[…] Ma anche considerando il secondo fattore, e cioè l’offerta di lavoro, la diminuzione oltre certi limiti del tempo occupato va vista con molta cautela.

[…] Permane una aliquota di disoccupati al di sopra dei limiti fisiologici ed un notevole numero di lavoratori ha ancora una occupazione saltuaria. Nel quadro della politica di sviluppo è d’altra parte fondamentale che l’obiettivo della piena occupazione venga perseguito nei limiti consentiti dal mantenimento, nelle aziende, delle condizioni di competitività. Pertanto, considerato che ogni riduzione degli orari di lavoro si risolve comunque in aumenti dei costi unitari, è ragionevole pensare che tali riduzioni non possano ad un certo punto non ripercuotersi sulla capacità per le aziende di intensificare il processo di occupazione della manodopera e quindi di assorbire il margine di inoccupazione attuale.

Altro importante elemento: il livello salariale. Mentre i costi del lavoro italiani occupano posizioni molto elevate nell’ambito europeo soprattutto per il pesante carico di oneri sociali, il reddito netto di alcune categorie di lavoratori risulta ancora piuttosto basso se posto in raffronto con quello dei lavoratori degli altri paesi che hanno attuato riduzioni del tempo occupato all’incirca uguali alle nostre. Ciò induce a ritenere che la maggior parte dei futuri incrementi di produttività saranno verosimilmente da destinarsi, almeno in diversi settori, più all’elevamento delle remunerazioni che non ad una ulteriore contrazione degli orari.

[…] Il problema della settimana corta si pone comunque diversamente nelle industrie a ciclo continuo rispetto alle altre […]. Il problema può meglio essere affrontato nelle aziende con lavorazione distribuita su uno o su due turni giornalieri di lavoro, dato che queste sono in grado di procedere all’attuazione della settimana corta senza ridurre ulteriormente l’orario di lavoro settimanale, ma solo modificandone la distribuzione […].

A prescindere da ciò, le conseguenze sul piano dell’impresa si identificano, per le aziende di questo tipo, con la diminuzione del rendimento che si verifica a seguito del prolungamento della durata giornaliera. È ormai nozione acquisita che il rendimento del lavoro, considerato in funzione della durata giornaliera della prestazione, pur essendo variamente influenzato da una serie molteplice di fattori (ambientali, economici, fisiologici, ecc.), segue in generale il principio della produttività decrescente.

È da ritenere pertanto – e l’esperienza delle aziende che hanno attuato la settimana corta prolungando l’orario giornaliero lo conferma – che la protrazione del lavoro al di là delle 8 ore comporti un abbassamento dei rendimenti unitari, che spesso non trova attenuazioni apprezzabili nel godimento di due giorni consecutivi di riposo.

[…] Una certa attenuazione dei limiti che si incontrano per l’adozione della settimana corta potrebbe aversi con lo spostamento di tutte, o di alcune festività infrasettimanali.

È noto che nell’industria la produzione deve presentarsi il più possibile come un flusso ininterrotto e uniforme. Da ciò deriva che la interruzione del ciclo settimanale comporta un danno – di ampiezza più o meno apprezzabile a seconda delle caratteristiche della produzione – che va oltre la perdita di prodotto afferente alla giornata di festività, perché incide anche sulla produttività del giorno precedente, nonché su quella del giorno successivo (di qui la tendenza delle aziende a fare effettuare i «ponti», oltre che per andare incontro alle preferenze dei lavoratori). Il problema assume una peculiare importanza nel nostro Paese in cui le festività previste dalla legge e dai contratti collettivi risultano 17, numero di gran lunga più elevato di quello che si riscontra altrove (in Germania da 10 a 13 […]; in Belgio, in Francia, in Danimarca e in Norvegia 10; in Olanda, da 6 a 7 a seconda dei contratti; nell’urss 8; negli usa 7; in Svezia 4).

È importante rilevare a questo proposito che il differente numero di festività – e in parte anche delle ferie –, aggiunto alla forte spinta sindacale che da noi si ha per l’attuazione effettiva delle riduzioni dell’orario di lavoro, porta a collocare i nostri orari di fatto ai livelli più bassi della scala europea. Diversamente da quanto avviene da noi, all’estero vi è, inoltre, una tendenza a far cadere i giorni festivi al lunedì o ad unirli ai periodi di ferie. Il giorno di vacanza isolato in mezzo alla settimana è stato abolito, ad esempio, in Gran Bretagna e nei Paesi scandinavi. Particolari anniversari che cadono durante la settimana vengono in questi Paesi solennizzati esclusivamente con articoli su giornali e manifestazioni serali.

Anche tenendo presente la possibilità di coincidenza con la domenica – per la Pasqua questa coincidenza c’è sempre – o con il sabato, appare dunque di tutta evidenza l’opportunità di una revisione delle norme in atto nella materia, revisione peraltro complessa, considerati i diversi aspetti del problema e in primo luogo quello religioso, dal momento che delle 17 festività, 13 costituiscono delle ricorrenze liturgiche. Dell’argomento si è peraltro occupato il Concilio Vaticano ii, giungendo alla risoluzione di non opporsi in via pregiudiziale a iniziative in tal senso.

È certo comunque che l’eventuale spostamento delle festività al sabato o alla domenica potrebbe favorire, sotto ogni profilo, un generale migliore assetto degli orari di lavoro e fra l’altro accelerare, almeno in alcuni settori, il processo di attuazione della settimana corta.

In merito, la recente proposta di legge del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro sui «Provvedimenti in materia di orario di lavoro, riposi settimanali e annuali dei lavoratori dipendenti» porterebbe ad una disciplina più favorevole.

Tale proposta prevede infatti per quattro festività (Capodanno, 1° maggio, 2 giugno e 25 dicembre) un divieto di lavoro quasi assoluto, le eccezioni riguardando le esigenze di pubblica utilità e il danno che altrimenti deriverebbe ad alcune produzioni.

Per le altre festività non cadenti in domenica viene invece demandato alla autonomia collettiva […]. Per quanto concerne le ferie, il problema non è peraltro tanto di quantità quanto di distribuzione. Analogamente infatti a ciò che più o meno si verifica in altri Paesi, il periodo di ferie è da noi concentrato nel trimestre luglio-agosto-settembre, in cui viene mediamente usufruito circa il 73% della spettanza annua, ed in ispecie nel mese di agosto – mese in cui la maggior parte degli stabilimenti effettua la chiusura collettiva – solo nel quale se ne utilizza ben il 43%.

Di qui una serie di inconvenienti: particolarmente nel mese di massima concentrazione, le città si svuotano e le località di villeggiatura registrano un repentino affollamento cui le attrezzature esistenti non possono far fronte; le strade sono percorse da migliaia di automobili con ingorghi paurosi e punte eccezionali di incidenti; i treni viaggiano sovraccarichi e così via. Un panorama, insomma, di estremo disagio. D’altra parte vi sono, a favore della chiusura collettiva di agosto, esigenze e motivi di non poco conto sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori.

Per i datori di lavoro lo spostamento della chiusura a diversa epoca comporta il rischio di pregiudizievoli sfasature sia nei confronti dei concorrenti sia nei confronti dei fornitori e della clientela; sopprimere la chiusura, per converso, significherebbe fare utilizzare le ferie a turni, soluzione questa che presenta molti aspetti negativi (tanto per citare, soltanto durante la chiusura si possono eseguire certe operazioni di grossa manutenzione e di modifica degli impianti che richiedono il fermo per più giorni del macchinario).

Per i lavoratori è da rilevare che il sistema attuale offre maggiori probabilità di trascorrere, avendo i figli liberi dagli impegni scolastici, le ferie con la propria famiglia e nel periodo in cui si ritiene – invero le statistiche metereologiche smentiscono tale convinzione – che il tempo sia più propizio. Indubbiamente il problema dello scaglionamento delle ferie va affrontato con molta cautela, sulla base di un piano concordato tra le varie organizzazioni (produttive, turistiche, dei trasporti, ecc.) a poco giovando iniziative di singole aziende o, anche, di intere categorie.

[…] Attesa l’opportunità dello spostamento di alcune festività infrasettimanali al sabato o alla domenica, nonché dello scaglionamento delle ferie, non è del tutto certo in via generale che l’adozione sempre più generalizzata della settimana corta rappresenti la via più razionale e soddisfacente per arrivare ad una migliore ripartizione fra tempo occupato e tempo libero. A favore della settimana corta si enumerano i benefici per il personale femminile, per gli studenti lavoratori, per coloro cui, data la lontananza della famiglia, i due giorni di riposo consentono un ritorno a casa altrimenti irrealizzabile, per chi ama sports non praticabili in città, ecc. Si evidenzia la spinta a dedicarsi alle attività ricreative e culturali, la maggior parte delle quali richiede una certa disponibilità di tempo. Ma soprattutto si pone l’accento sulla possibilità della lunga gita di fine settimana – il week-end – che consente un distacco netto, fisico, dalle fabbriche, dagli uffici, dalle strade abituali, dalla città: una fuga di due giorni destinata a ricostruire le energie psichiche spese nella settimana.

È però da osservare – e qualche voce qualificata si è già espressa in questo senso – che il week-end non si traduce certo, almeno nella gran parte dei casi, in un riposo ristoratore: se è una «evasione», si tratta invero di una evasione faticosa, caratterizzata da perigliosi ed estenuanti viaggi in auto sulle strade congestionate.

Non va dimenticato inoltre che il week-end comporta un dispendio spesso notevole di denaro e ciò ne limita l’uso. È chiaro infatti che la fuga dalla città ha un senso se si realizza nel trasferimento in un luogo desiderato: ad esempio il mare, il campo di sci. Ma la maggioranza delle famiglie deve invece ripiegare su altre più modeste soluzioni, quando poi non resta a casa. Le facili generalizzazioni della città vuota al sabato ed alla domenica perché tutti gli abitanti hanno preso l’automobile od il treno e sono altrove vengono smentite dalle immagini dei quartieri periferici, dei caffè, dei cinema.

La verità è che la «civiltà dell’evasione» non ha saputo ancora crearsi i modelli necessari.

Manca la mentalità favorevole alle attività ricreative e formative, ma mancano altresì le attrezzature che non siano quelle di divertimento passivo. A Milano, per esempio, vi è solo una piscina coperta ogni 500 mila abitanti ed un campo da tennis ogni 30 mila abitanti. Eppure Milano è in testa per attrezzature sportive e numero di utenti.

Vi è anche il problema di alcuni servizi pubblici. La «società dell’evasione» congloba tutti: al sabato gli uffici comunali sono chiusi e così gli uffici delle imposte, le banche, gli enti previdenziali, ecc. Per il lavoratore che abbisogna di uno di questi servizi ed il cui orario giornaliero non gli consente di usufruirne nella settimana, prima dell’inizio del lavoro o dopo la chiusura, sono evidenti le difficoltà che si frappongono.

È forse da domandarsi a questo punto se non sia preferibile per la intera comunità tendere piuttosto verso un altro obbiettivo: la giornata corta.

A parità di prestazione nel ciclo annuo, la distribuzione dell’orario settimanale su 6 giorni, estesa a tutte le settimane dell’anno, consentirebbe invero di attuare una durata giornaliera apprezzabilmente ridotta. […] Più tempo libero nel corso della giornata consentirebbe di stare maggiormente con la famiglia, nonché di adempiere alle piccole necessità di tutti: andare dal medico, fare degli acquisti ecc., senza attendere il sabato quando tutto è più difficile ed in particolare l’affluenza nei negozi è tale da non permettere a volte una scelta ponderata tra una merce e l’altra; ma aprirebbe inoltre la possibilità di maggiormente dedicarsi alle attività formative che l’attrattiva del week-end ostacola.

Appare chiaro, tuttavia, che la tendenza verso la progressiva estensione della settimana corta – come i precedenti esteri e la stessa nostra esperienza dimostrano e come attestano tra l’altro anche i risultati della inchiesta che la Doxa ha condotto per conto della rivista – sia irreversibile e che pertanto l’accorciamento della durata giornaliera vada visto, piuttosto, in prospettiva, a settimana corta acquisita, realizzandosi la possibilità di ulteriori contrazioni degli orari di lavoro. Intanto, l’aumento del tempo di cui si può liberamente disporre nel corso della giornata va cercato per altre vie: l’estensione dell’orario unico e l’accorciamento dei tempi di trasferimento.

Con l’urbanesimo e la motorizzazione gli ingorghi di traffico cittadino causano, specie nelle ore di punta, perdite di tempo notevolissime. Se si considera il tempo che si spende per raggiungere l’ufficio e l’officina gli orari giornalieri sono invero gravosi; quando poi gli spostamenti avvengono quattro volte al giorno essi diventano il più delle volte intollerabili.

Del resto si può fare un piccolo calcolo. Delle 24 ore di cui è composta la giornata, nell’ipotesi che ogni trasferimento richieda mediamente 45 minuti, il «tempo di trasporto» ne assorbe 3, 8 sono da dedicarsi al sonno ed altre 2 ai pasti; se la durata del lavoro è di 8 ore, ne rimangono solo 3 a disposizione, (che si riducono poi a 2 se la durata del lavoro è di 9 ore).

[…] Si tratta inoltre di risolvere alcuni non piccoli problemi, a cominciare dalla insufficienza delle attrezzature logistiche per la refezione, non sempre essendo infatti possibile trovare nel luogo di lavoro o nelle sue vicinanze un servizio che fornisca il pasto meridiano ad un prezzo moderato […].

In conclusione, l’estensione dell’orario unico è certo auspicabile, ma non è sufficiente. Occorre anche migliorare le vie di comunicazione e l’efficienza dei pubblici trasporti, nonché procedere ad opportune diversificazioni degli orari per tutti quegli organismi in cui la coincidenza degli stessi non è strettamente necessaria, perché il tempo richiesto dai trasferimenti tra la casa e il lavoro risulti il più possibile abbreviato, tra l’altro favorendo cosi il decentramento delle abitazioni in luoghi residenziali, vale a dire in una cornice più congeniale alla natura umana.

La migliore soluzione che potrà darsi al problema della distribuzione degli orari e del tempo libero dipende dalla fattiva collaborazione tra tutti: autorità politica, enti pubblici, enti privati.

[…] Va sottolineato, comunque, che ogni modificazione dei calendari e degli orari di lavoro richiede, perché sia produttiva di effetti positivi, l’esistenza di adeguate «infrastrutture» per l’utilizzazione del tempo libero, nonché di un certo grado di educazione sociale al suo impiego.

Tempo libero significa essenzialmente scelta, libertà, espressione e sviluppo della personalità per tutti gli individui e in particolare per quelli che non riescono a realizzare se stessi nel lavoro. Ciò è attuabile nella misura in cui esistano opportune istituzioni che non solo siano in grado di offrire la possibilità di svolgere benefiche attività di riposo e di svago, ma che in pari tempo costituiscano fonte e mezzo di espressione di più profondi valori: allargamento del sapere, aumento della partecipazione sociale, stimolo all’attività creativa eccetera.

Nel tendere a questo obiettivo occorre però evitare di fare del tempo libero l’aspetto positivo della vita e del lavoro quello negativo (il che porterebbe, in ultima analisi, a pregiudizievoli frustrazioni con conseguente diminuzione dell’efficienza di quest’ultimo), attraverso una separazione netta che tra l’altro non trova corrispondenza nella realtà; ma piuttosto cercare, a tutti i livelli, valide forme di integrazione tra lavoro, loisir e cultura, sulla base di un costante impegno formativo, perché l’uomo sia «educato», in tutta la pienezza del termine, oltre che alla vita di lavoro, anche – e sempre più – alla vita fuori del lavoro.

Solo in questo modo la riduzione del tempo occupato può costituire un fattore di compensazione e di equilibrio, non rischiando di risultare fine a se stessa, ma convertendosi invece nella disposizione di un maggior tempo personalmente disponibile, tale da rappresentare un equivalente morale della occupazione produttiva e un «arricchimento» sia per i singoli individui, sia per l’intera collettività.