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Un’esperienza in fabbrica

Per molti anni, forse da quando ho incominciato a dipingere, il mondo della fabbrica mi ha attirato. O forse, prima ancora che un interesse cosciente, è la memoria lontana di un bambino venuto su in mezzo a grandi alberi e prati coltivati a fiori che sentiva il fischio della sirena oltre il muro di cinta e le voci e i passi delle operaie avanti e indietro per i turni della tessitura. Quel muro è stato nella vita, per molti e molti anni, invalicabile e ancora oggi nuove difficoltà sono sorte quando si è trattato di dare una forma e un colore allo sterminato paesaggio di cemento che ci circonda e, dentro, agli uomini che ci stanno con sentimenti e ragioni che li distinguono.

Col passare del tempo può darsi che mi sia fatto audace e insieme prudente. Il fumo della città tocca i prati e ogni cosa, mi dico, bisogna saper guardare al cuore sotto la tuta e specchiarsi in un cespuglio. Ma non ho perso la speranza di cercare diritto l’uomo nella fabbrica, di individuare un gesto che lo colga unito, lavoro che fa e coscienza più generale.

 

Dentro la grande fabbrica. Affidarsi agli occhi, al cuore, alla mente? Abbandonarsi al ritmo della costruzione sconosciuta (la forma di un ingranaggio, particolare di cui non afferri il significato reale nella produzione), ombre, luci, rumori, calore, umidità, riflesso abbagliante? Verifica di una denuncia ideologica? Partecipazione a quanto di umano esiste malgrado tutto nella fabbrica moderna (il volto del contadino di ieri, dell’artigiano, della donna di casa)?

[…] Non posso che procedere a tentoni, per una approssimazione ora cosciente, ora semicosciente, ora istintiva.

Per la prima volta sono andato alla Bicocca senza accompagnatore. Dopo tanti anni che lavoro in condizioni «anormali» rispetto al tradizionale metodo del dipingere (non la quiete dello studio, il silenzio dei campi, ma il rapido contatto con la gente e le cose in movimento), tuttavia ancora disagio e rispetti umani, forse più che ogni altra volta. Nell’immenso reparto della vulcanizzazione, in mezzo alle macchine che aprono la bocca stringendo i grossi pneumatici, molto caldo, abbastanza rumore, aria scura e pochi operai in bianco grigio, mi aggiro fermando gli occhi su particolari per me privi di senso.

A volte l’occhio cade sull’operaio come su qualsiasi altro elemento della macchina. Cosa voglio? Gli operai che senza guardarmi mi vedono camminare avanti e indietro per il reparto, sostare, riprendere su e giù, se lo chiederanno certo, o così almeno penso, e questo mi paralizza.

Potrei forse rivolgere la parola a uno o all’altro, una domanda qualsiasi, ma a che servirebbe? (Fuori di qui, nella strada, al circolo, sarebbe diverso.) Dare una visione d’insieme del lavoro industriale? Esprimere il significato di un lavoro così coordinato? Tutto è possibile ed estremamente vago. Traccio dei segni sull’album, accovacciato tra le gomme di camion, ritaglio della carta, l’incollo, faccio altri segni.

Più che in ogni altro reparto sono tornato ai vulcanizzatori; qui mi sembra di percepire, meglio che altrove, il rapporto tra la grandiosità del lavoro industriale e la presenza dell’uomo, elemento vivo e necessario ma non soltanto artigiano.

 

[…] La proposta di Castellani (volevo fare un giro nelle fabbriche Pirelli?, non solo per disegni ma per quadri o qualsiasi tecnica preferissi) era senza condizioni. Non mi si chiedeva cioè di illustrare questo o quello; che traessi liberamente motivo per il mio lavoro. […]

L’idea di un quadro è ancora lontana. Sento tuttavia che un primo coagulo sta per essere raggiunto. Sono nati così questi smalti a fuoco, splendidi di colore, materia compatta e luminosa. Cosa vi è rimasto impigliato del grumo di incertezze, di chiarezza intravista, di contraddizioni non risolte? La mia visita alla grande fabbrica è appena incominciata.

Dicembre 1961-febbraio 1962

 

Ernesto Treccani ha passato alcuni giorni negli stabilimenti Pirelli della Bicocca muovendosi per sale di lavorazione e laboratori, prendendo appunti, parlando con operai e tecnici, seguendo insomma un itinerario suggerito soltanto dai suoi sentimenti d’artista. A leggere il breve diario che, quasi didascalia alle immagini, il pittore ha tracciato di quelle giornate, sembrerebbe confermato quanto certi incontri siano difficili e come certi recuperi, lenti e laboriosi nel contesto della fabbrica, possano invece trovare esiti più sicuri fuori di essa. Ma gli smalti di Treccani, che pubblichiamo in queste pagine, in grandezza naturale, dimostrano anche che il contatto fra l’artista e il mondo della fabbrica non è necessariamente destinato al fallimento. E la testimonianza più significativa del valore di un’esperienza è, per l’artista, la validità della sua opera.